Inimmaginabile che negli Stati Uniti ci si potesse mai porre una domanda da incubo: “ma che fine ha fatto il Primo Emendamento della Costituzione che tra gli altri diritti fondamentali sancisce in particolare la libertà di opinione? ” . Nel reportage dell’Agenzia di stampa Italpress il punto sul pericoloso crinale per la democrazia che sta attraversando l’irriconoscibile America di Donald Trump.
Donald Trump e Jimmy Kimmel
Negli Stati Uniti la libertà d’espressione é sotto assedio. Perché il caso Jimmy Kimmel è un campanello d’allarme
Nei Late Night USA la libertà di espressione vacilla sotto il peso delle pressioni politiche: Jimmy Kimmel è sospeso, Stephen Colbert esce di scena, Jimmy Fallon resta l’ultimo baluardo. Ma cosa rimane del Primo Emendamento?
Questa settimana l’America ha vissuto un momento che resterà nella storia come un segnale d’allarme per la democrazia.
Il caso Kimmel non è solo una lite televisiva: é il simbolo di un attacco diretto al Primo deve, e dunque alla libertà su cui si regge il sistema americano. Tutto é partito da un monologo in cui il comico Jimmy Kimmel accusava la “MAGA gang” di manipolare la tragedia dell’assassinio di Charlie Kirk per guadagni politici. Poi ha mostrato un video in cui un giornalista chiedeva a Trump come stessi dopo la perdita del suo “amico”: invece di una risposta di dolore, il presidente parlava dei lavori per una nuova ballroom alla Casa Bianca.
Jimmy Kimmel
Kimmel ha commentato che Trump era “alla quarta fase del lutto: la costruzione”, paragonandolo a un bambino di quattro anni che piange un pesciolino rosso. Una battuta tagliente, che ridicolizzava Trump proprio sul terreno dell’emotività. Ed è questa parte del monologo che, più ancora della critica politica, lo ha probabilmente fatto infuriare. Il giorno dopo, il presidente della Commissione federale per le comunicazioni, nominato da Trump, ha minacciato Disney e ABC: se non prendevano provvedimenti, le licenze erano a rischio.
Le affiliate hanno ceduto, e infine anche la rete: Kimmel é stato sospeso a tempo indefinito. La verità é chiara: un network può scegliere chi mandare in onda, ma non può farlo sotto ricatto del governo. In quel momento non é più una decisione editoriale: é censura politica.
Come se non bastasse, Trump stesso ha rincarato la dose. Durante il volo di ritorno da Londra, a bordo dell’Air Force One, ha detto ai giornalisti che le reti televisive che parlano male di lui “potrebbero perdere la licenza”. Ha aggiunto che la decisione si aspetterebbe al presidente della FCC, Brendan Carr. Non più quindi solo pressioni velate, ma la minaccia esplicita del presidente degli Stati Uniti di chiudere i microfoni a chi osa criticarlo. A denunciare questa deriva è intervenuto David Letterman, il decano dei late night, che ha ricordato come lui aveva criticato presidenti di ogni colore politico “e mai nessuna agenzia governativa ci aveva messo le mani addosso”. All’Atlantic Festival di New York Letterman ha accusato ABC di aver ceduto “per paura, per servilismo verso un’amministrazione criminale”. Ma il caso Kimmel si inserisce in una più ampia crociata contro la stampa. Trump ha appena querelato anche il New York Times, dopo il Wall Street Journal. Non importa se le cause siano infondate: lo scopo è logorare, intimidire, piegare i giornali. CBS e ABC in passato hanno pagato milioni pur di evitare processi. Questa volta, però, c’è stata una risposta. I Democratici hanno presentato al Congresso il No Political Enemies Act, per impedire che un presidente o funzionari federali possano usare il loro ruolo per punire i critici. Il senatore Chris Murphy del Connecticut ha detto chiaramente che la sospensione di Kimmel è censura: un controllo statale del discorso che “non è l’America.
E ha denunciato che Trump sta cercando di normalizzare l’idea di usare il potere federale per intimidire chi lo critica. E proprio questa settimana si è fatto sentire anche Barack Obama. Dopo un lungo, forse troppo lungo silenzio, l’ex presidente ha parlato dalla Pennsylvania, definendo questo momento un vero “punto di svolta” per la democrazia americana. Obama ha detto: “Quando abbiamo il peso del governo degli Stati Uniti dietro visioni estremiste, abbiamo un problema”. Ha ricordato che estremisti ci sono sempre stati, ma mai prima d’ora erano stati appoggiati dalla Casa Bianca. Ed è questo che rende l’attuale situazione pericolosissima. Ha criticato il linguaggio di Trump e dei suoi collaboratori, che gli avversari vermi e nemici da colpire, trasformando il dissenso politico in un bersaglio.
Obama riconosce che ormai la posta in gioco é la sopravvivenza stessa della democrazia. Mentre si consumava lo scontro sul Primo emendamento, altre vicende si intrecciavano.
La Federal Reserve ha tagliato i tassi, ma Trump insiste per licenziare la governatrice: la Corte Suprema deciderà se può farlo. Se gli darà ragione, l’indipendenza della banca centrale sarà spazzata via.
Al Congresso, le audizioni hanno messo in difficoltà il Centro di controllo medico controllato da Kennedy e soprattutto l’FBI.
Il direttore Kash Patel é stato incalzato sul tentativo di insabbiamento dello scandalo Epstein, che non smette di tornare a galla, persino a Londra, dove alla vigilia dell’arrivo di Trump un’immagine di lui con Epstein é stata proiettata sulla Windsor Tower.
Nonostante la pomposa cena con Re Carlo e il successo dei nuovi accordi economici firmati con Starmer, l’ombra dello scandalo Esptein non si é mai allontanata dal Presidente americano.
Anche questa settimana é evidente che dalla Casa Bianca Trump vuole il controllo totale. Dei comici, dei giornalisti, delle istituzioni indipendenti. Non intende accettare limiti al suo potere, senza alcuna tolleranza critica. Ma il Primo emendamento dimostra, il cosidetto Bill of Rights, non é un dettaglio tecnico, é il pilastro della Costituzione, la prima difesa della libertà.
Se viene eroso, cade tutto il resto. Ecco perché la battaglia di Jimmy Kimmel non é solo sua: é quella di un Paese che rischia di non riconoscersi più.
*Stefano Vaccara, Giornalista e scrittore. Nato in Sicilia, a Mazzara del Vallo, cresciuto a Palermo, laurea a Siena e master alla Boston University, da dove ha iniziato a scrivere per Il Giornale di Montanelli. Negli Usa, dove insegna, fonda nel 2013 “La Voce di New York” e dal Palazzo di Vetro, dopo esserlo stato per 10 anni per Radio Radicale, é attualmente corrispondente per l’Agenzia Italpress.