Molti vivono la vita come la si vive, per lo più, intorno a sé. L’omologazione alla maggioranza statistica li preserva, dalla culla alla tomba, da obiezioni, critiche, domande impertinenti.
Ma una minoranza (spero non proprio sparuta), almeno ogni tanto, dedica tempo a interrogarsi se davvero il modus vivendi dominante sia l’unico possibile o almeno il più raccomandabile.
Si attiva così una riflessione su ciò che si pensa, cosa si desidera profondamente, come si operano le scelte decisive, come ci si comporta nella banale quotidianità.
E’ nel corso di questo lavorìo, di questa lenta elaborazione, che può scattare – improvvisa – una intuizione: in tedesco si direbbe un blick o in inglese, con un termine altrettanto onomatopeico, un flash.
Anche Francesco Calviello, autore di Veganpeace. La pace agli antipodi (Amazon Italia, 2025, pp. 111, euro 12,00), avvia il racconto della sua “nuova” vita dal momento preciso in cui “sentì spezzarsi qualcosa nel cervello, un crack netto mentre il volto gli scattò all’insù verso le nuvole” (p. 16).
Questo (apparentemente) improvviso capovolgimento dello sguardo, o forse meglio questo crollo (apparentemente) improvviso della benda congenita che ci ottundeva la vista, è un’esperienza attestata da molti mistici: il greco dei vangeli cristiani la denomina metanoia (che molti decenni fa un biblista ci suggerì di intendere come una sorta di “inversione a U” : da che procedi deciso in una direzione di marcia a che avverti di trovarti bruscamente spostato da una forza estranea nella direzione opposta). Ma Calviello non è un mistico, almeno non nell’accezione teologica ordinaria: ciò che egli ‘vede’ con prepotente e inaspettata lucidità è la molto ‘laica’ verità che “«prodotti animali» etici non ci sono” (ivi).
Quando si sperimenta – in un certo senso si subisce – un simile mutamento di paradigma (lo sanno molto bene anche le persone che abbandonano la logica dell’occhio per occhio, dente per dente, perché gli s’impone l’evidenza che solo la nonviolenza attiva salverà il mondo – ammesso che qualcosa lo potrà mai salvare) si apre fra sé e il contesto sociale una frattura: più o meno profonda, ma invalicabile. Si sente il desiderio di lanciare un ponte di funi da una parte all’altra della spaccatura: si cercano allora le parole adatte, i ragionamenti più convincenti, gli esempi più eloquenti. Ma invano. Non è questione di intelligenza né tanto meno di cultura, ma di angolazione. E’ impossibile che guardino le stesse cose chi è ritto sui propri piedi e chi è appeso con la testa all’ingiù.
L’autore dunque non vuole (almeno esplicitamente) convincere nessuno: vuole solo dare spazio alle proprie “emozioni più profonde” (p. 129 e testimoniare) ciò che per lui è – dal giorno della ‘conversione’ a oggi – lo “spirito vegan, quand’esso si distingua dal mero ‘non uccidere’, da un animalismo zoofilo se non, alla peggio, da questioni banalmente dietetiche. (…) Vegan si oppone criticamente all’insegnamento ad imprigionare chicchessia e guardarlo, manipolarlo dall’esterno con «guanti sterili»” (p. 25). A partire dal significato della parola indiana yoga egli sottolinea che “l’unione-con-il-tutto prevede in modo radicale la percezione e la salvaguardia della vita di ogni essere senziente”: “chi non svolge in sé questa percezione fa ginnastica o rilassamento, non yoga” (p. 43).
Il fatto che si diventa ‘vegani’ (e, prima ancora, almeno ‘vegetariani’) per una radicale opzione di fondo esistenziale, in cui si esprime una concezione etico-filosofica complessiva, non esclude che – per sovrabbondanza – tale opzione soggettiva possa essere rinforzata da considerazioni scientifiche e politiche oggettive. Perché sostenere che “nella fettina di 60 grammi è disperso un chilo di proteine vegetali” (p. 32); che “un’alimentazione vegana globale risparmierebbe il 75% dei terreni oggi impiegati” (ivi); che dei “quasi 400 milioni di tonnellate (di soia) previste per la stagione 2024/25, più del 90% sarà dato in pasto agli ergastolani non umani per la campagna a tutela dei palati” (p. 33); che esiste una “relazione tra gli stravolgimenti climatici e lo sfruttamento intensivo della natura e degli animali” (p.52) non sono affermazioni fantasiose.
Come non è esagerato temere che, con gli attuali ritmi di produzione dei foraggi per gli allevamenti industriali, il consumo di terreni coltivabili e di acqua potabile moltiplicherà le occasioni di scontro all’ultimo sangue fra popoli più armati e popoli meno armati.
Anche alla luce del mio percorso attuale terrei a dissipare almeno due equivoci che potrebbero crearsi a partire dalla verità che certe ‘visualizzazioni’ si hanno o non si hanno. Primo: ciò non esclude che esse possano susseguirsi a distanza l’una dall’altra nel tempo. Può darsi che una volta si ‘veda’ la tragicità dello specismo antropocentrico (cfr. p. 38) per cui si decide di militare in organizzazioni come il CIWF impegnate sistematicamente nella riduzione della crudeltà contro gli animali non-umani; un’altra volta si ‘veda’ la possibilità realistica di diventare ‘vegetariani’ e un’altra volta ancora di diventare ‘vegani’. Un secondo equivoco potrebbe consistere nel sottovalutare il ruolo che l’informazione, lo studio, il confronto dialogico possano giocare prima, durante e dopo la ‘illuminazione’. Fidarsi esclusivamente del buon senso o della propria sensibilità sentimentale – come se non fossimo animali dotati anche di razionalità – sarebbe una sorta di fideismo: non si guadagna lo status di “pensatori autonomi, svincolati dalla doxa e dai sogni del branco” (p. 31) senza nessuna “fatica del concetto”.
Capiterà ad ogni lettore di provare perplessità o per la sofisticatezza del registro linguistico di alcune pagine o per l’opinabilità di alcune tesi (come ad esempio le critiche all’obbligatorietà della vaccinazione anti-covid o all’istituzione del codice fiscale individualizzato): ma simili, possibili, reazioni non sembrano per nulla impreviste (e forse neppure sgradite) da parte dell’autore.