HomePaginePer una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto

Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto

PAGINE

Rubrica di critica recensioni anticipazioni

I cardini del pensiero Socrate Buddha Confucio Gesù

by Augusto Cavadi

“Il mio personale rapporto tra violenza e non violenza inizia negli anni Settanta (…). E’ il tempo della grande contestazione (…). Iniziato che ero un timido ragazzino, curioso di capire il mondo entro i venti di rivolta che lo animavano, e concluso da adulto nelle dure lotte del Settantasette col ruolo riconosciuto di leader del movimento studentesco e col soprannome, sicuramente significativo, di <<Molotov>>”: così, sin dalla prima pagina, si presenta Antonio Minaldi, autore del recente Gandhi ad Auschwitz. Elogio della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage, pp. 99, euro 10,00.L'esistenziale elaborazione del Sessantotto

“L’adesione all’ipotesi della lotta armata come strategia politica era lo spartiacque tra noi che ci consideravamo i veri rivoluzionari e coloro che avevano tradito i vecchi ideali, consegnandosi al nemico con sbiaditi discorsi riformisti” (pp. 7 – 8). Da allora passa, non invano, mezzo secolo: intreccio di altre esperienze politiche, di viaggi per il mondo, soprattutto di letture e di riflessione. L’esito, abbastanza recente, di questo itinerario é l’adesione “alla teoria e alle pratiche della Nonviolenza” (p. 9), non solo come “scelta di vita” ma anche come “strumento privilegiato, costitutivo e strategico, di una scelta politica non qualsiasi, ma ‘rivoluzionaria’, rivolta cioè alla capacità fattuale di abbattere un potere dominante, violento e armato, votato al sopruso e alla guerra” (p. 10).

Trovo molto significativa questa testimonianza del coetaneo Minaldi e – devo confessare – anche confortante per quanti, sin dal Sessantotto, ci siamo convinti che la società cui dedicare la totalità delle nostre energie fosse di “liberi, uguali e fraterni” e che avvicinarvisi con “dittature” più o meno terroristiche fosse un modo per allontanare la méta (dal momento che senza “libertà” e “fraternità” tutto ciò che si ottiene è la sostituzione delle ineguaglianze economiche con le ineguaglianze di potere, pervertendo – per citare Ignazio Silone – la dittatura del proletariato in dittatura sul proletariato ).

Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto
Antonio Minaldi

Da allora infatti la nostra posizione di “amici della Nonviolenza” che non hanno la sfrontatezza di qualificarsi come “nonviolenti” é stata ed è bersaglio di tiri incrociati: da parte dei “duri e puri” che, di frazionismo in frazionismo, sono arrivati alla divisione dell’atomo e da parte dei “realisti” ben inseriti nello status quo (spesso ex-rivoluzionari pentiti) che ci accusano di ingenuità “utopistica”.

Ciò premesso e chiarito, mi pare doveroso aggiungere che il lodevole scritto di Minaldi non é privo di sviste storiche né di lacune né di passaggi molto opinabili.

Quando parlo di sviste mi riferisco ad asserzioni come: all’epoca di Marx “il concetto di Nonviolenza, così come la potenza del femminile, come strumenti di lotta politica capaci di incidere nei rapporti di forza non avevano ancora fatto il loro ingresso nella storia” (p. 63). Senza risalire lontano per millenni sino a Socrate, Buddha, il Taoismo, Gesù e neppure per secoli sino a Erasmo da Rotterdam , Voltaire e Kant (autori di cui si devono riconoscere almeno semi rilevanti di rifiuto della logica della gestione violenta dei conflitti) mi sembra opportuno notare che Marx (nato nel 1818) è stato un contemporaneo di Henry David Thoreau (nato nel 1817) e di Lev Tolstoj (nato nel 1828): la Nonviolenza, “antica come le montagne” (Gandhi), è stata davvero a disposizione di chi ha avuto il desiderio di vederla!

Un’altra svista non secondaria per rilevanza mi pare l’identificazione di “aggressività” (che è un dato fisiologico, genetico, necessario alla sopravvivenza del soggetto) e “violenza” (che è un dato patologico, culturale, nocivo alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie): la violenza e la nonviolenza sono due modi alternativi di gestire, di canalizzare, di istituzionalizzare l’aggressività. Dunque non è esatto affermare che “violenza e Nonviolenza ci appartengono per natura” (p. 70) dal momento che, invece, tendenze innate (o acquisite nei millenni di storia evolutiva) sono – “in un continuo mediarsi” (ivi) – la pulsione aggressiva alla competizione  e la pulsione alla cooperazione solidale.Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto

Una delle conseguenze di questa (inesatta) identificazione di “aggressività” e “nonviolenza” mi pare sia l’affermazione secondo cui – posto che “la guerra” sia “un dato emblematico dei modi che in ogni epoca storica hanno caratterizzato la violenza” (p. 73) – “lo scontro armato e le migrazioni violente e predatorie dei popoli debbano essere considerati come dati senza i quali la storia umana non si sarebbe neppure resa possibile” (ivi). Ma è davvero così? Se si concede questa retrospettiva allo storicismo hegeliano non si dovrebbe condividere la prospettiva della “fine della storia” qualora l’evoluzione umana ci portasse a escludere come un tabù il ricorso alla guerra? Direi che la storia umana non sarebbe stata possibile nel passato e non lo sarebbe nel presente e nel futuro  senza conflitti, senza divergenze di sentimenti e di umori, senza dialettica di idee e di interessi; ma non senza scontri bellici (o comunque violenti, tesi all’annichilimento o per lo meno alla sottomissione dell’altro). Senza le guerre ci sarebbe stata un’altra storia, non  l’impossibilità radicale del configurarsi di una storia.

Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto Questa interpretazione non esclude che, a posteriori, si possa constatare che le guerre – in sé non necessarie né proficue – abbiano prodotto non “solo morti e distruzioni”, ma anche “forme di scambio commerciale e culturale”(ivi): si tratta, appunto, di “effetti di socializzazione secondaria” (ivi) che si sarebbero potuti ottenere, come si spera possa avvenire quando saremo progrediti a un livello più alto di civilizzazione, anche senza guerre.

Tra le lacune mi sembra evidente l’assenza di riferimenti a tesi che ormai sono ritenute fondamentali per qualsiasi delle possibili versioni della nonviolenza, quali ad esempio la dicitura satyagraha (“insistenza della verità”) in coppia, se non in sostituzione, di ahimsa (“non nocenza”). Infatti molti interrogativi che l’autore si pone non avrebbero, a mio sommesso avviso, ragion d’essere se si chiarisse che la proposta gandhiana (e non solo) non è soltanto “negativa” (astensione dall’esercizio della forza fisica e militare) ma anche, e soprattutto, “positiva” (tentativo di raggiungere la coscienza dell’avversario affinché accetti di gestire il conflitto senza ricorso alle armi). Questa mia osservazione specifica può valere, più ampiamente, per l’intero libro: da un neofita mi sarei aspettato almeno qualche riferimento alla letteratura primaria e secondaria della ormai sterminata bibliografia sulla nonviolenza dove molte “problematiche” che la concernono sono state tante volte focalizzate e (per quanto possibile in un campo così accidentato) risolte.

Tra i passaggi opinabili segnalerei, innanzitutto, le righe in cui – più volte – si contrappone l’opzione della Nonviolenza al “diritto di resistenza” (p. 47). Qui sarei molto più chiaro: la Nonviolenza o è un modo di praticare la resistenza o non serve a nulla. Dunque la vera contrapposizione è fra il “diritto alla resistenza, anche nelle sue forme estreme che possono prevedere l’uso della lotta armata” (ivi)  e il “diritto di resistenza” con tutte le molteplici tecniche elaborate e sperimentate sul campo dalla tradizione nonviolenta. Personalmente sono convinto (per quel che ne so in sintonia con i padri fondatori della Nonviolenza) che reagire con la violenza a una ingiustizia palese (ad esempio l’invasione del proprio territorio da parte di un esercito straniero) sia preferibile all’inerzia passiva; ma che molto preferibile alla reazione violenta sia la resistenza nonviolenta da parte di una popolazione preparata da anni a simili eventualità (e dunque allenata agli scioperi, i boicottaggi, la disobbedienza civile, la renitenza all’arruolamento forzato etc.: va in questa direzione la richiesta avanzata da anni dal Movimento Nonviolento dell’istituzione di un “Ministero della pace” che preveda l’addestramento di un vero e proprio ‘esercito’ per la “Difesa popolare nonviolenta”). Se questo non si afferma con chiarezza si può dare l’impressione che la Nonviolenza sia un’ottima soluzione nelle situazioni ‘moderate’, ma vada messa nell’armadio in attesa di tempi migliori quando il gioco si fa serio.

Queste incertezze nell’esposizione di Minaldi riflettono, probabilmente, un’impostazione di fondo per lo meno problematica: la dicotomia fra “etica” e “politica” e l’attribuzione della scelta nonviolenta essenzialmente alla prima sfera. In tale scenario, infatti, è inevitabile che certi principi etici – in sé intoccabili – vadano poi declinati nella prassi storica concreta con elasticità. Ma è una prospettiva corretta?

Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto
Ghandi

Personalmente ritengo che l’adozione della Nonviolenza debba essere, prima di tutto ed essenzialmente, una scelta pratica, strategica, conveniente utilitaristicamente: non possiamo agganciare a una determinata visione etica perché l’agganceremmo a un gancio su cui è arduo trovare consenso lungo i secoli e alle varie latitudini del pianeta. Non c’è dubbio – e qui valorizzerei il discorso di Minaldi e dei tanti che sul punto la pensano come lui  – che la fedeltà al metodo nonviolento può essere incoraggiata da certe etiche e scoraggiata da altre: come non essere d’accordo con l’autore quando inserisce la nonviolenza come prassi politica in una più ampia prospettiva di rifiuto della violenza nei confronti della natura (ecocidio), delle donne (patriarcato), delle fasce sociali sfruttate (capitalismo attuale)  e degli altri animali (consumo delle carni)? Personalmente mi ritrovo in pieno in questa fondazione etica a trecentosessanta gradi, ma mi guarderei bene dal presentarla come l’unica accettabile. Il rapporto della nonviolenza con una certa etica è a mio avviso analogo al rapporto della nonviolenza con una certa religione: in Gandhi, ad esempio, con il suo induismo.

Che è una fede altamente nobile, se vogliamo particolarmente consona con una postura nonviolenta nel mondo, ma non certo ad essa legata a doppio filo: si può essere nonviolenti senza essere induisti (o gianisti o cristiani) e si può essere induisti  (o gianisti o cristiani)  senza essere nonviolenti.Per una elaborazione esistenziale e politica del Sessantotto

Facebook Comments
Augusto Cavadi
Augusto Cavadi
Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo
RELATED ARTICLES

AUTORI

Gianfranco D'Anna
3784 POSTS0 COMMENTS
Gianfranco D'Anna
3784 POSTS0 COMMENTS
Augusto Cavadi
97 POSTS0 COMMENTS
Vincenzo Bajardi
66 POSTS0 COMMENTS
Maggie S. Lorelli
33 POSTS0 COMMENTS
Adriana Piancastelli
29 POSTS0 COMMENTS
Antonino Cangemi
25 POSTS0 COMMENTS
Dino Petralia
24 POSTS0 COMMENTS
Valeria D'Onofrio
24 POSTS0 COMMENTS
Antonio Borgia
20 POSTS0 COMMENTS
Piero Melati
14 POSTS0 COMMENTS
Letizia Tomasino
8 POSTS0 COMMENTS
Beatrice Agnello
5 POSTS0 COMMENTS
Rosanna Badalamenti
5 POSTS0 COMMENTS
Pino Casale
3 POSTS0 COMMENTS
Luisa Borgia
2 POSTS0 COMMENTS
Francesca Biancacci
1 POSTS0 COMMENTS
Italo Giannola
1 POSTS0 COMMENTS
Arduino Paniccia
0 POSTS0 COMMENTS
Michela Mercuri
0 POSTS0 COMMENTS