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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
“La poesia è un prodotto assolutamente inutile”. A dirlo è Eugenio Montale nel discorso pronunciato dinanzi all’Accademia di Svezia quando, nel 1975, gli conferirono il Nobel per la letteratura.
“Inutile poesia” è il verso che apre la silloge di Raffaele Manduca “Restò solo voce”, di recente edita da Nulladie. Il poeta ligure aggiunge che la poesia è “una malattia endemica e incurabile”.
Ineluttabile come la vita, secondo Manduca, per il quale l’esistenza è segnata dal dolore ed è essa stessa, al pari della poesia, una patologia (“Di tutto è restato solo il dolore / ovunque vive fiera la mia pena”).
Alla sua prima raccolta di versi, Raffaele Manduca, docente di Storia Moderna all’Università di Messina, offre ai lettori, col linguaggio della poesia – che sgorga dall’interiorità ed è solo sfiorato dalla ragione – una visione nichilista della vita, aliena a ogni facile consolazione.

Se la natura abbaglia di bellezza, rivela nel suo gigantesco mistero “il senno delle cose / intrise al cappio del non senso”, “perché la vita è lutto, all’alba / quando la lusinghi, / qualunque rosa spandi nel futuro / con sospiri”.
“Restò solo voce” è una riflessione in versi sulla condizione umana schiacciata dal non senso dell’esistenza o, se vogliamo, dall’incapacità di coglierne il significato, come rivelano anche i versi di Borges citati in esergo. Nessuna àncora di salvezza, nulla a cui aggrapparsi dunque per Manduca? Non propriamente: la parola stessa e la stessa poesia, e ancor più la capacità di sentire il silenzio, seppure non salvifiche mitigano il dolore. Lo svela soprattutto la poesia “sbocciare almeno un fiato” in cui affiorano la sofferenza vissuta – sublimata e universalizzata nei suoi versi – e le ragioni che hanno spinto l’autore alla poesia: “scrissi…per dare senso al pianto…e scrissi per non impazzire…perché vivere è parola…”.
E non a caso le prime due sezioni della silloge s’intitolano “parole” e “silenzi”. Seppure “la vita non si scrive con l’inchiostro…”e “…la vita è intransigente, mai fanghiglia onesta / di penna e cellulosa”, sono pur sempre un “segno”, per quanto labili, “le macchie dell’inchiostro sul mio foglio”. Nel silenzio poi alita “il fiato di Dio”: “Mi parlavi, Signore / il tuo silenzio, / graffiato dall’assenza ogni futuro…”. Vi è paradossalmente nel nichilismo di Manduca un’ostinata religiosità: l’“ostia” è “amara”, Dio non si rivela e si lascia solo immaginare e indovinare, imprime la sua essenza in una natura leopardianamente benigna e matrigna e l’uomo lo cerca disperato e senza esito.
Uno storico che scrive versi, Manduca. Perché? Probabilmente perché la storia, col suo rigore razionale, non gli basta per indagare la condizione umana – oggetto comunque della disciplina che insegna – e coglierne la drammaticità.
Quella storia che la poesia gli fa dire “è solo sciame di cadaveri” e che nella raccolta ritorna nel canto luttuoso di eventi tragici: Auschwitz, l’assedio di Sarajevo, il dramma dell’immigrazione (“Orchidee e bare”), a conferma di come il dolore e l’insensatezza abbracciano l’uomo e ne accompagnano il cieco cammino nel tempo.
Qualche cenno sugli aspetti formali della sua poesia. Manduca rinvia al Novecento e alla stagione ermetica: sia al primo Ungaretti – anche per la brevità di molti componimenti – sia a Montale del quale condivide, come si è visto, il nichilismo e che riecheggia, oltre che più palesemente in alcune poesie (leggasi, ad esempio, “perché groviglio è il cuore”), in certe dissonanze e asprezze di suoni in versi di calibrata musicalità eredità delle “Rime petrose” dantesche (opera tanto poco conosciuta quanto fondamentale per l’evolversi del linguaggio poetico nei secoli fino ai nostri giorni).
Un buon esordio dunque, quello di Manduca: benvenuto tra i poeti uno storico consapevole dei limiti della conoscenza razionale.