L’avvitamento della crisi politica inglese che ha determinato le convulse dimissioni del primo ministro Boris Johnson, dai più considerato un “Premier per caso”, parte da lontano e si può considerare l’effetto dell’onda lunga della Brexit.
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A sei anni dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Regno Unito ha un deficit della bilancia commerciale a livelli record, mentre l’inflazione che sfiora il 9 % annuo incrina la stabilità della Sterlina e falcidia il reddito dei cittadini britannici che dal 2016 ha registrato, secondo i dati Ocse, una perdita pro capite di 4.520 sterline (quasi 5.500 euro). La più alta rispetto alla media dei 19 Paesi dell’eurozona.
In questo contesto di grave crisi socio economica con un’ondata di scioperi a tappeto, si inserisce la crisi parallela intanto di credibilità e poi di efficienza del Governo Johnson, che ha aggravato i già pesanti bilanci della crisi del coronavirus e poi quella energetica scatenata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin.
Con prospettive ritenute pessime: “l’inflazione avrà effetti peggiori e più prolungati nel Regno Unito rispetto ad altri Paesi, tanto che a breve potrebbe addirittura sfondare quota +11%. E anche l’economia crescerà di meno”, ha affermato il governatore della Bank Of England, Andrew Bailey. Invece di fronteggiare la situazione, Johnson ha dovuto giustificare all’interno del Partito Conservatore e al cospetto del Parlamento inglese vari comportamenti privati spesso abbondantemente al limite, se non della decenza, quanto meno dell’opportunità politica.
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