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Mafia l’altra faccia della morte della società civile

by Antonio Borgia     

Di origini siciliane, mafia è forse il termine più conosciuto al mondo e viene, ormai, collegato a qualsiasi organizzazione criminale esistente sulla faccia della terra.

Si pensa che derivi dal grido “Ma fìa” (mia figlia, in dialetto) della madre della nobildonna oltraggiata da un soldato francese, sul sagrato della Chiesa palermitana di Santo Spirito, il lunedì di Pasqua del 1282, che scatenò la rivolta dei Vespri siciliani e il massacro degli Angioini. Mafia l’altra faccia della morte della società civile

Altra ipotesi, di matrice araba, è quella del termine “maha” che indicherebbe le cave di pietra d’epoca saracena, nel trapanese, vicino ai luoghi dello sbarco dei Mille.

Nelle stesse, denominate mafie dalla gente del posto, sembra abbiano trovato rifugio molti volontari sbarcati a Marsala nonché i fiancheggiatori di Garibaldi, chiamati mafiosi perché, appunto, provenienti dalle cave.

Lo storico palermitano Giuseppe Pitrè sostenne, nel 1887, che la voce mafia, fino al 1860, avesse un significato positivo ed indicasse bellezza, graziosità, perfezione, eccellenza nel suo genere: una ragazza bellina, ben assettata, è mafiusedda; una casa di popolani ben messa, pulita, ordinata, è una casa mafiusedda; e così via.

Poi divenne negativo.

La responsabilità del mutamento sarebbe dell’opera dialettale “I mafiusi di la Vicaria di Palermu”, rappresentata, per la prima volta, nel 1863, nel locale Teatro S. Anna.

L’ultraventennale successo in Italia e all’estero, in particolare negli Stati Uniti, con più di duemila recite in 23 anni, determinò la generalizzazione dell’uso del termine ma con un senso diverso dall’originario.

I due autori della commedia, Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, erano soliti recitare “a braccio” nei paesi, in occasione di fiere e feste patronali; nel 1862 erano a Palermo, per il festino di Santa Rosalia (13-15 luglio), in zona Porta Nuova.

Si racconta che i due, a causa della scarsa affluenza di pubblico, furono consigliati da un boss della zona -tale Iachinu Funciazza-, gestore della taverna che ospitava la compagnia, a variare il repertorio e mettere in scena gergo, usi e abitudini dei “membri della società” delinquenziale dell’epoca, detenuti nel più famoso carcere (la Vicaria) del capoluogo siciliano.

Gaspare Mosca scrisse, così, due atti con il titolo La Vicaria di Palermu.

Poco dopo, Mosca si imbattè in due uomini che litigavano. Udendo la frase “Vurrissi fari u’ mafiusu cu mia?” (vuoi fare il prepotente con me?), ne riportò l’episodio, ottenendo la variazione definitiva del titolo per una storia che raccontava anche l’usanza del pizzo ovvero la richiesta estorsiva di una somma di denaro, imposta da alcuni detenuti, denominati “camorristi”.

Il successo della commedia, dovuto al suo realismo, allarmò i membri della società criminale che imposero agli autori l’aggiunta di un terzo atto “riparatore”, scritto da Rizzotto, nel quale il protagonista ipotizzava, una volta scarcerato, un cambiamento di vita e la sua redenzione tramite l’ingresso in società operaie di mutuo soccorso.

La commedia venne rappresentata anche a Roma e Napoli dove, addirittura, vi assistette il re Umberto I.

La parola “mafiusi” comparve solo nel titolo ma influenzò, probabilmente, le autorità locali tanto che sia il Prefetto di Palermo -Antonio Filippo Gualtiero- sia il Procuratore Generale del Re -Giovanni Interdonato- utilizzarono, nel 1865, per la prima volta, il termine “maffia”.

Il primo lo inserì nel rapporto sull’andamento giudiziario inviato al Ministro degli Interni, il secondo nella relazione annuale della magistratura, con la spiegazione che si trattava di una specie di “camorra”, di una “associazione malandrinesca” caratterizzata dagli “stretti collegamenti che aveva stabilito con alcuni partiti politici” e con i potenti.

Addirittura, il Generale Alessandro Della Rovere, luogotenente del Re in Sicilia, poi divenuto Ministro della Guerra, nel 1861, da Palermo scrisse al conte Giovanni Thaon Di Revel: «Qui v’è pure la camorra, non meno cattiva della napoletana. La chiamano maffia».

Il termine divenne di uso comune grazie al successo mondiale del libro “Il Padrino”, scritto da Mario Puzo nel 1969, e dell’omonimo film di Francis Ford Coppola, vincitore di 3 premi Oscar nel 1973, ritenuto il più bello della storia del cinema americano. Anche la bellissima colonna sonora di Nino Rota contribuì, oltre al successo della pellicola, a diffondere l’immagine della mafia, rendendo nota la terminologia inserita nella sceneggiatura nonché, purtroppo, a mitizzarne comportamenti e personaggi.

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Michele Greco il cosiddetto “Papa” della mafia

La dimostrazione di come il film abbia inciso anche sugli stessi mafiosi è data, in particolare, da due episodi: le parole pronunciate dal boss Michele Greco, detto «il papa», capo della commissione provinciale di cosa nostra, l’11 giugno 1986, nel corso di un’udienza del maxiprocesso palermitano («Io le posso dire una cosa, signor Presidente: che la rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Perché se Totuccio Contorno avesse visto Mosè e non Il Padrino, non avrebbe calunniato l’avvocato Chiaracane… Invece Totuccio Contorno, purtroppo, ha visto Il Padrino…»), e il ritrovamento, nel 2023, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, nella sua abitazione di Campobello di Mazara, di un poster di Marlon Brando-Don Vito Corleone.

In Italia, libri e film (famoso “Il giorno della civetta” del 1968, di Damiano Damiani, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia) hanno contribuito a far conoscere la mafia.

Dopo che il pentito Tommaso Buscetta rivelò l’effettiva denominazione (cosa nostra) dell’organizzazione siciliana, oggi per mafia, in Italia, si intende un’associazione criminale con le caratteristiche previste dall’art. 416-bis del nostro Codice penale, entrato in vigore nel 1982 con la legge Rognoni-La Torre.Mafia l’altra faccia della morte della società civile

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Antonio Borgia
Antonio Borgia
Generale in pensione della Guardia di Finanza, ha prestato servizio in Sicilia dal 1979 al 1996, nel pieno della guerra di mafia e delle stragi di cosa nostra. Ha collaborato con diversi magistrati a Trapani e Palermo quali Dino Petralia, Ottavio Sferlazza, Carlo Palermo ed i Pm della DDA di Palermo allora guidata dal Procuratore Giancarlo Caselli, in particolare Alfonso Sabella. Attualmente é editorialista della Gazzetta di Asti.
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