Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta. Sentimenti passioni amori e disamori. Storie di vita e vicende vissute
by Pinkie
Un viaggio in India con un Centro Yoga è un sentiero che incrocia spiritualità e voglia di conoscere, curiosità e stupore, mistica e sub realtà, orrore e meraviglia in un caleidoscopio di sensazioni che escludono solo l’indifferenza.
Si parte per Nuova Delhi dove il blu del cielo si vela di un sottile grigio di nebbia fatto di inquinamento, smog e fumi di ogni genere, diluito in mille odori tatuati sulla pelle che mescolano olii, incensi, deiezioni, fogne improvvisate, pozze di acqua stagnante e raggi di sole timidi come adolescenti di altri tempi.
In giro, l’India tecnologica dei computer, dell’ingegneria pioneristica e delle armi sembra lontanissima.
Ovunque si mescolano senza sosta esseri umani ed animali, uomini, donne, bambini, vecchi, storpi, cani, scimmie, mucche, topi e insetti.
Ovunque rumori a strati; sussurri supplici dei mendicanti e campanelli improvvisi dei mantra, muggiti, clacson, urla di scimmie e invocazioni ad Allah nelle moschee accanto ai templi induisti, risate musicali di ragazze bellissime e cantilene struggenti delle melodie indiane.
Ovunque Gange, alfa e omega, liquido amniotico e ultimo abbraccio alle ceneri.
Ovunque taxi veloci o caracollanti, biciclette vecchissime, tuk tuk a motore, a pedali, a elettricità e a traino umano con l’incessante suono del clacson ad indicare improbabili direzioni e cambi di marcia.
In India – retaggio coloniale inglese – la guida è a destra e si dovrebbe tenere la sinistra, in realtà si crea un fiume di qualsiasi veicolo che trasporta qualsiasi cosa in ogni istante del giorno e della notte.
Monu, guida locale di un pomeriggio a Varanasi – pelle liscia e olivastra, occhi febbrili, intensi e bordati di kajal – avverte sorridendo rassegnato:”..in India only one rule: no rule, never“. L’unica regola dell’India è che non esistono regole, mai.
I cani sono moltissimi, in ogni strada, in ogni angolo, silenziosi, magri, poco aggressivi ed eternamente affamati come le mucche, sacre ma scheletriche, alla ricerca disperata di cibo di qualsiasi genere.
Ovunque mercati, pieni di sciarpe e di stole di mala, di statue induiste ed incensi, di cibi fritti e bicchieri di chai (tea, latte e spezie) e di lassi , una specie di yogurt liquido tra il kefir ed il latte cagliato.
Il taccuino turistico suggerisce la tomba di Humayum, la Moschea Jama Masjid e l’imponente Forte Rosso, ricordi di una potenza antica e delle molteplici influenze religiose, e impone la maestosità dell’Indian Gate, l’arco dedicato ai martiri della indipendenza del Paese e del Lotus Temple, il tempio della religione universale bianco e fermo come un fiore di loto, esternamente ricco di suggestioni e pieno di vuoto all’interno: il messaggio è che ognuno può pregare chi vuole, come vuole; siamo figli di un Dio/energia impalpabile di cui siamo parte e a cui in qualche modo torneremo secondo filosofie e religioni orientali dopo la giostra di karma.
Un volo breve ed è già Varanasi, la vecchia Benares e l’antica Kashi, città sacra dalle continue pire ardenti che riportano resti umani nel ventre di mamma Gange, dai Ghat (scalinate che portano al fiume) che pullulano di vita quotidiana e di scenari indimenticabili che raccontano una povertà assoluta stemperata da hashish e meditazione.
Nell’acqua dal colore incerto proseguono i lavacri mentre il fiume lascia lungo le rive tracce di vita e di morte in cui esseri umani ed animali rovistano cercando qualcosa.
Ogni mattina all’alba ed ogni sera al tramonto si celebra il Ganga Aarti che è omaggio al dio Shiva, al fiume, al fuoco, alla vita, al giorno che inizia o si tuffa nella notte. Indiani e turisti con qualche speranza affidano allo scorrere dell’acqua cestini di foglie e fiori con candele e incensi dopo le benedizioni di guru autentici o improvvisati che segnano bindi colorati sulla fronte.
Sulle rive del Gange si vive, si muore, si dorme, si spera, si contempla, si medita, si ride, si prega e si resta immobili ad aspettare un futuro uguale al passato o una promessa di vita diversa dai profili indistinguibili.
Altri chilometri di polvere e strade, giacigli improvvisati e sorrisi rubati e dal nirvana nasce uno dei monumenti più belli dedicati allo strazio della perdita: il Taj Mahal, il mausoleo di marmo bianco, patrimonio dell’umanità e dell’UNESCO che il moghul Shah Jahan fece costruire in ricordo della moglie Mumtaz Mahal morta dando alla luce il quattordicesimo figlio.
Il monumento funebre è perfetto in ogni prospettiva, il marmo bianco preceduto da un lungo corridoio di acqua è di una bellezza struggente: la leggenda vuole che la compagna del moghul avesse strappato al marito la promessa che in caso di eventuale fine prematura non ci sarebbero state altre mogli e sarebbe stato costruito- a consacrare il rimpianto ed il ricordo – un monumento meraviglioso destinato a restare unico al mondo. E Jahan mantenne entrambe le promesse.
Il sentiero spirituale si avvia alla conclusione con qualche giorno dedicato all’esperienza yogica collettiva in un ashram a Rishikesh, un giro nel parco di Rajiji immerso in una pioggia premonsonica e un paio di giorni ad Haridwar, altra città sacra in cui si rincorrono sorrisi e disperazione che sono la costante dell’India.
Resta la difficoltà di comprendere un approccio esistenziale tanto diverso dal pensiero e dall’animo non indiano, rimane la voglia irrisolta e inappagata di capire come si possa conciliare la Delhi industrializzata che potrebbe decollare al pari della Cina, ma che resta inchiodata alla gerarchia arcaica delle caste, al mistero degli intoccabili, alla rassegnazione del karma, ad un senso assoluto di miseria profonda ingentilita dai sorrisi dei tanti bambini che giocano scalzi sospesi tra un’infanzia inconsapevole ed un futuro indefinito in un Paese di contraddizioni, ritualità antiche, preghiere ossessive e risate con gli occhi muti.
Il massimo della potenza nucleare e l’nimmaginabile miseria umana, l’Olimpo della matematica e gli abissi del nichilismo: l’India è un autentico buco nero di tutte le peggiori contraddizioni del mondo. O per dirla aulicamente, come il sociologo americano Henry Louis Mencken: “E’ la vera patria delle apocalissi e delle escatologie. Si sono inventati più paradisi e inferni qui, che in tutto il resto del mondo, e la loro influenza è visibile in tutte le teologie moderne.“ Come Pinkie, zerozeronews preferisce tuttavia la definizione del grande inviato e scrittore Tiziano Terzani: “Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. E’ sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso malodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani. Ma così è l’amore: istintivo, inspiegabile, disinteressato”