by Emanuela Locci
“Le donne non sono uguali agli uomini. Il grande status che riserva loro l’Islam è di essere madri” ripete spesso Recep Tayyp Erdoğan, Presidente della Turchia al potere da circa 20 anni.
Una frase che fotografa esattamente l’attuale condizione delle donne turche. Per comprenderla a fondo dobbiamo contestualizzare storicamente il loro ruolo, rispetto alla situazione femminile nel paese.
Dal 1923, anno della rifondazione da parte di Kemal Atatürk dopo il crollo dell’impero Ottomano, la Turchia è stata attraversata da un lungo periodo di laicismo kemalista.
Il partito al potere nel primo periodo repubblicano, lo storico CHP, il braccio politico dei governi kemalisti che si sono susseguiti dopo la fondazione e attualmente il maggiore partito di opposizione, hanno compiuto tutta una serie di azioni rivolte all’emancipazione femminile.
Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso si sono compiuti passi da gigante per riuscire a raggiungere la parità dei diritti tra i generi.
Il tutto in chiave nazionalista: lo scopo della leadership era di creare donne turche moderne, che sarebbero diventate uno dei simboli della Turchia moderna.
Essi hanno utilizzato le donne cercando di plasmarle in modo che rappresentassero un simbolo della loro ideologia dominante. È bene sottolineare che comunque le riforme kemaliste hanno creato nuove opportunità per le donne, le hanno proiettate dall’ambito domestico a quello pubblico, anche se non era prevista la perfetta uguaglianza di genere.
In sostanza la condizione femminile migliorava, aumentava l’accesso ai diritti fondamentali, come ad esempio il diritto di voto, ma la donna tuttavia rimaneva sempre un passo indietro all’uomo in molti ambiti, basti pensare al mondo del lavoro.
Con il kemalismo la donna doveva essere una buona turca, che avrebbe generato numerosi e buoni turchi maschi, tutto con l’unico obiettivo di costruire una nazione forte, moderna e vicina all’occidente.
La situazione politica della Turchia in questi ultimi venti anni invece é profondamente mutata. Il partito di Erdogan, l‘Akp che si proclamava di ispirazione moderatamente islamista ha subito una mutazione genetica fondamentalista, che ha comportato ripercussioni soprattutto sul mondo femminile.
Il ritorno alla visione islamica è avvenuto progressivamente, con una netta inversione rispetto all’originaria posizione di forza politica laica sostenuta in gran parte da donne , favorevole all’ingresso nell’Unione europea e impegnata nella battaglia per i diritti umani.
Il capovolgimento delle posizionì è stato brusco ed ha ruotato soprattutto sul ruolo della famiglia e sulla subalternità conclamata delle donne, espressamente predestinate seconda la retorica fondamentalista a compiti domestici senza alcun controllo delle nascite. Anzi il Governo chiede esplicitamente alle donne turche di avere almeno tre figli e vieta l’alimentazione artificiale dei neonati, perché contraria ai precetti religiosi. In ogni caso i diritti delle donne sono stati progressivamente disattesi in nome di un diritto superiore che è quello della famiglia.
Oltre alla regressione della condizione femminile sì è registrato un totale allontanamento delle donne dai posti di potere, sia in ambito lavorativo che politico.
La Turchia che nel periodo kemalista aveva riconosciuto il diritto di voto alle donne nei primi anni Trenta, anticipando di misura molti paesi europei che erano il suo modello, si ritrova oggi a compiere passi a ritroso con evidenti conseguenze socio economiche: aumento dell’immigrazione giovanile femminile verso l’Europa e impennata soprattutto dei femminicidi. In media, ogni giorno una donna in Turchia muore per mano di un familiare.