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Dalla movida alla covida: i morti di fama e il falso sé

by Maggie S.Lorelli

Dalla movida alla covida. Con il ritorno all’emergenza Covid-19, l’opinione pubblica ha recentemente messo alla berlina il popolo della notte, dai giovani frequentatori delle discoteche alla moda, ai vip habitués dei locali più trendy.

I rituali della covida che, per loro stessa natura, portano ad aggirare i protocolli di sicurezza, accorciando le distanze e spesso privandosi dei dispositivi di protezione sanitaria, sono stati additati fra gli atti maggiormente responsabili dell’aumento dei contagi da Covid-19 nei mesi estivi.

Ne discutiamo con Marco Riva, psichiatra e psicoterapeuta già Coordinatore dell’Ambulatorio per la Diagnosi e la Cura dei disturbi dell’umore e dell’ansia e di Psiconcologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano, socio fondatore di “OttoCentro”, servizio che propone innovativi percorsi terapeutici anche online, autore di oltre trenta pubblicazioni specialistiche tra cui “Falso Sé e Psicopatologia mediale”.

Cosa porta le persone ad assembrarsi eludendo le norme di distanziamento sociale? E’ la voglia di stare insieme, intensificatasi dopo il lockdown, l’incoscienza o piuttosto lo sprezzo impudente del rischio?

È quasi irresistibile puntare un dito accusatorio su presunti colpevoli infettanti, magari trovando ragioni scientifiche per i loro comportamenti. Così facendo si cade in una sorta di arroganza psico-razzista che segna nette differenze evolutive tra le persone. Spesso rimango stupito dalla facilità con la quale ci si sbarazza degli ingombri, divieti, regole e presunte saggezze che la mente ci pone di fronte, e dal piacere che queste eliminazioni provocano. Soprattutto quando si può sfidare la morte, che al momento non può essere battuta, ma con godimento sfiorata, baciata, inalata e soprattutto controllata da quel Cavaliere unico e invincibile che si può diventare, magari attrezzandosi con psico-additivi di un qualche tipo. Regredire è fantastico.

La socialità si sposta sempre più nella dimensione virtuale, ma allo stesso tempo gli esseri umani manifestano un bisogno di stare fisicamente vicini attraverso riti sociali come l’aperitivo o il ballo di folla. Trova che una delle due modalità sia più autentica dell’altra, o si tratta in entrambi i casi di adesione spersonalizzante alle logiche del gruppo sociale o del social network di appartenenza?

Parto da me stesso. Mi risulta spesso difficile essere una persona e non un’anatra. Forse non mi riesce mai di non aderire a un qualche attraente gesto ipnotico, per me ergonomico, cioè fatto su misura per me, che mi permetta di essere riconosciuto da antichi sguardi accoglienti. Qualcuno si è sentito accolto da Mick Jagger, altri da un qualche sciantoso ultimo modello di auto, di donna o di uomo, o magari di simulacro oggi sempre meravigliosamente disponibile. La fusione è irresistibile.

Lei ha approfondito nei suoi lavori il concetto del “Falso Sé”. Ritiene che l’adesione a modelli estetici o comportamentali stereotipati possa nascondere un vuoto esistenziale?

Ricordo che negli anni in cui ho scritto il saggio “Falso Sé e Psicopatologia mediale”, in compagnia di McLuhan [Herbert Marshall McLuhan, sociologo, filosofo e critico letterario canadese, noto per la sua interpretazione innovativa degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso che sui comportamenti dei singoli, ndr], accusavo i media di produrre confezioni stimolanti per facilitare l’adeguamento di umani-cloni felici, e di creare format comportamentali, cioè personalità “Falso-Sé” da indossare. La proliferazione di tali modelli ha determinato la sparizione o il non riconoscimento dell’originale. Chi siamo quando postiamo un selfie se non modelli alla ricerca di consensi? Cloni a caccia di cloni. Non-essere è inebriante!

In una società più che mai edonista e narcisista, la smania autocelebrativa rischia di ridurre il senso di empatia?

Credo che l’empatia sia oggi, ma forse lo è sempre stata, merce rara e molto delicata. A volte nel mio lavoro, con le persone che in quel momento si chiamano “pazienti”, tra le mie teorie, tra le mie esperienze, tra le mie evidenze diagnostiche mi sembra di sentire un’emozione che non posso non considerare e catalogare. Forse in certi soffi dell’amore si può sentire l’Altro. Spesso colonizziamo le nostre emozioni in merce narcisistica. Può darsi che lo stia facendo anche ora.

I modelli comportamentali proposti dai vip o aspiranti tali, o per esempio dagli influencer, improntati prevalentemente all’apparire e all’avere, fanno leva sul comune senso di inadeguatezza. Che ne sarà dell’autenticità individuale?

Chissà se c’è? Uno dei miei psicanalisti di riferimento, Wilfred Bion, sosteneva che l’analisi è come una sonda che allarga il campo che esplora. Penso: “per essere autentico, non essere autentico”. E’ possibile che un qualche influencer dica qualcosa di interessante, ma non so se le mie orecchie siano sufficientemente pulite per coglierlo. Credo se mai che una qualche autenticità possa conseguire alla curiosità.

In un mondo in cui le relazioni sono sempre più standardizzate, spesso modellate sui format dei social network (su Instagram siamo tutti fotografi, su TikTok ci trasformiamo in demenziali ballerini…), rischiamo di perdere anche il senso della realtà?

“Ma a cosa stai pensando!”. Spesso mi capita di essere svegliato mentre sogno-dormo ad occhi aperti. A volte le persone devono distruggere la propria mente con operazioni che producono isolamenti schizofrenici pur di trovare un po’ di pace da format materni-paterni o da sorrisi, come se fossero veri sorrisi… “Far finta di essere sani”, come cantava Giorgio Gaber è un altro modo di essere.

Nell’epoca mediatica, l’aspirazione a una celebrità effimera nasce dalla frustrazione, ed è come una droga che non basta mai. Esiste un modo più sano di rehab? I morti di fama possono ancora esistere senza dover dimostrare di esistere?

Tra i cinque minuti di celebrità di Warhol non lontani dal gesto di mr. Joker e la riabilitazione di Pol Pot o il Brainwashing dello psichiatra Donald Ewen Cameron cosa scegliamo? Ho conosciuto psichiatri e psicoanalisti bisognosi di celebrazioni e medaglie. Mi capita tuttora di provare quella sete di gloria che non lascia niente agli altri ma tutto alla statua di me stesso. Tuttavia credo che dalle parti dell’offerta senza ritorni narcisistici ci sia ancora qualche speranza evolutiva.

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Gianfranco D'Anna
Gianfranco D'Anna
Fondatore e Direttore di zerozeronews.it Editorialista di Italpress. Già Condirettore dei Giornali Radio Rai, Capo Redattore Esteri e inviato di guerra al Tg2, inviato antimafia per Tg1 e Rai Palermo al maxiprocesso a cosa nostra. Ha fatto parte delle redazioni di “Viaggio attorno all’uomo” di Sergio Zavoli ed “Il Fatto” di Enzo Biagi. Vincitore nel 2007 del Premio Saint Vincent di giornalismo per il programma “Pianeta Dimenticato” di Radio1.
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