PAGINE
Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
Cent’anni di Pasolini. La provocazione era il suo demone, il suo talento. Ciò lo ha reso uno degli intellettuali più controversi e intriganti del Novecento italiano. E più rimpianti.
Pier Paolo Pasolini – di cui il 5 marzo ricorre il centenario della nascita – ha lasciato un segno indelebile nell’universo culturale omologato e prigioniero di troppi conformismi del nostro Paese: il segno di chi diceva e scriveva quello che pensava incurante delle reazioni, da qualsiasi parte provenissero. Le sue parole, le sue pagine, i suoi film quasi sempre destavano scandalo e la sua esistenza – divisa tra la letteratura, l’arte, la passione ideologica e quella omosessuale per i “ragazzi di vita” – era, negli anni in cui visse, uno scandalo. Come uno scandalo fu la sua morte tuttora avvolta nel mistero: un omicidio di agghiacciante violenza.
Poliedrico come pochi, fu poeta, scrittore, cineasta, ma anche – e forse soprattutto – quello che oggi si definirebbe un opinion leader.
Esordisce come poeta prediligendo la poesia dialettale. La sua prima raccolta la pubblica ad appena vent’anni a sue spese, “Poesie a Casarsa”. Casarsa è il paese delle sue villeggiature da ragazzo e soprattutto il paese della madre, alla quale rimase sempre morbosamente legato. Sono poesie, quelle che lo rivelano, in cui prevalgono, nel dialetto friulano, i toni intimisti e una sensualità già esplosiva. Poi, come poeta, percorrerà altre strade che lo porteranno all’impegno civile e alla denuncia sociale seppure non abbandonerà mai la cifra diaristica. Se lo si volesse giudicare secondo canoni estetici crociani, i suoi versi più apprezzabili sono quelli giovanili non contaminati da taluni manierismi e da un eccesso di cerebralismo. Ma alcune sue poesie civili sono memorabili e colpiscono per l’asprezza di una lingua temerariamente cruda. Come “La ballata delle madri” in cui il poeta corsaro si scaglia contro la borghesia – bersaglio dei suoi strali – che si rispecchia in una redazione giornalistica piegata al servilismo.
Negli anni Cinquanta i suoi principali romanzi: “Ragazzi di vita” del ’59 e “Una vita violenta” del ’59, entrambi ambientati nella Roma sottoproletaria delle borgate. Con la madre si era trasferito a Roma nel 1950 dopo un furioso litigio col padre – col quale ebbe un rapporto conflittuale – generato dagli scandali suscitati dai suoi amori proibiti. Da allora Roma diventa la sua città e non a caso i protagonisti parlano in romanesco. I suoi romanzi sono riconducibili alla stagione Neorealista, ma il suo è un Neorealismo abbastanza originale, sia perché frutto delle sue esperienze di vita (nel sottoproletariato ritenne di avere trovato la naturalezza smarrita) sia per lo sperimentalismo linguistico.
Da cineasta ha lasciato diverse pellicole dagli esiti alterni. Alcuni film sono di sicuro spessore artistico, altri deludono. Tra i primi, “Accattone” del ’61, il cortometraggio “La ricotta” nel film a episodi “Ro.go.Pa.g. del ’63, “Il vangelo secondo Matteo” del ’65. Un discorso a parte merita il suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” del ’75, una metafora del potere che si manifesta nelle aberrazioni del sesso. Un film per stomaci forti che scandalizza per le immagini raccapriccianti e violente. Sciascia confessa nel suo diario pubblico “Nero su nero” di averlo visto per l’attenzione che aveva per Pasolini ma di essere stato costretto a chiudere gli occhi dinanzi a scene raggelanti.
Ma il Pasolini che più ci manca è il polemista degli “Scritti corsari”, il volume pubblicato nel ’75 che raccoglie gli articoli pubblicati sul Corriere della Sera e su altri quotidiani e periodici. Tante le sue provocazioni: dalla avversione per i “capelloni” (nel ’68 si schierò con i poliziotti “figli di poveri” e contro gli studenti “facce di figli di papà”) alla difesa della vita prenatale contro l’aborto, dalla denuncia dello “sviluppo senza progresso” alla disperata constatazione della “scomparsa delle lucciole”.
Degli scritti corsari è proprio quello sulla “scomparsa delle lucciole” il più profetico. Partendo dalla metafora delle lucciole che più non si vedono nei campi, Pasolini lancia un allarme: la civiltà contadina con l’umanità che vi è intrinseca è stata sopraffatta dalla società dei consumi provocando un radicale mutamento antropologico: spontaneità, solidarietà, sobrietà degli stili di vita appartengono a un passato che non ritorna più.
Al potere – che s’incarnava nei democristiani – è riuscito, secondo Pasolini, quello che nemmeno il fascismo aveva ottenuto: cancellare con un colpo di spugna i valori della civiltà rurale su cui si reggeva, pur tra tanti travagli, il nostro Paese. In ciò determinante era stata la televisione con la sua straripante forza omologatrice. Quella televisione nella quale oggi (e si aggiungono i social) imperversano i mestieranti senza talento della “provocazione”.