Chi ha amato visceralmente e con profondità il muro e l’onda del suono inconfondibile e irripetibile dei Pink Floyd non avrebbe mai potuto ignorare il ritorno al palco, alle luci, alle mitiche casse nere delle componenti degli strumenti, ai roadies, alle emozioni di David Gilmour, a nove anni dal tour di Rattle that Lock.
Nonostante la trasformazione regalata dal tempo – restano solo occhi e sorrisi dello splendido busker degli anni ‘60 – alcuni timbri irregolari della voce e la declinazione familiare della azienda/musica abbiano eroso parte di maestosità e magnetismo dei decenni scorsi, oggi David Gilmour incarna l’anima del suono di quel gruppo evoluto dai Sigma 6 e dai Tea Set, nato dal genio immenso del pifferaio folle Syd Barrett e dalla creatività di Rick Wright, Roger Waters e Nick Mason.
Nonostante le crisi, le droghe, l’alcol, le liti, gli amori, le donne, le mogli e i tanti figli, le tristezze infinite, le rabbie e le dolcezze, le lacrime e la pazzia, la potenza della chitarra di Gilmour riporta alla luce flashes e sensazioni, girandole di emozioni , dolori , stupori e magie iniziate nel 1965 e proseguite con rincorse di parole e suoni diversi fino alla luna sul Circo Massimo in sei notti romane.
La follia di Syd Barrett si stempera in una saggia consapevolezza della brevità e della precarietà della vita .
E “The Piper at the gate of Dawn” scopre “The Piper’s call” quasi 60 anni dopo con lo stesso fascino.
Il muro del suono dell’organo insostituibile di Richard Wright, musicista sensibile, gentiluomo dolce e raffinato così eclettico da prestare dita e anima al blues, al jazz, al rock, a Stockhausen e al prog è surrogato da ben due tastieristi ( Phillinganes e Gentry) bravissimi a ricreare, non a creare, la magia del sound di Wright la cui assenza è palpabile.
Ma David Gilmour ha vinto la tentazione dei rimpianti e di una reunion impossibile o di una cover band di lusso: è artista grande completo e consapevole di essere nel buio dei ricordi la fiamma di una band che ha creato suites infinite con la forza espressiva di sonate di musica eterna.
La scelta della scaletta è emblematica: c’è molto Gilmour ma restano radici ed echi di un passato indimenticabile e atmosfere avvolgenti.
Anche “Luck and Strange” è un concept album: la brevità della vita e la fragilità della natura umana respirano in ogni singolo accordo .
Del tutto assente la rabbia dei testi di Waters, sostituito nella espressività verbale da Polly Samson, anche se la originalità del bassista vestita ormai delle cupezze roche con cui ha trasformato un capolavoro – Dark Side of the Moon – in una mesta litania si è metabolizzata in invettiva metapolitica lasciando indietro il musicista che è stato.
La serata si apre con sinfonie strumentali e con Luck and Strange anche in ricordo di una session estemporanea insieme a Rick Wright e prosegue alternando il meglio di David Gilmour – Sorrow , High Hopes, Back to the life – a gemme Floydiane – Time, Wish you were here, The Great Gig in the Sky – insieme a tracks di “Luck e Strange “in cui debuttano l’arpa e la voce di Romany Gilmour e trionfa Scattered.
Su tutto, lo slide sound della chitarra di Gilmour che ha reso immortali e sospese nel tempo le note e i raggi verdi di Comfortably Numb, in chiusura.
La band è certamente di altissimo livello con il “quinto Floyd” , un Guy Pratt in gran forma presente anche nelle incursioni nomadi e preziose di Nick Mason nella esperienza dei “A saurceful of Secrets” e del repertorio fino al 1973.
Le note lanciate nel silenzio del Circo Massimo appallottolano il cuore: il rock non è morto, è pieno di vita e non morirà mai, ma il diaframma in gola del miracolo collettivo Pink Floyd, come per la musica eterna, è affidato soprattutto a ciò che resta inciso nei solchi di un disco e nell’anima e David Gilmour è l’orma immensa, la fiamma viva di un incendio finito e impossibile.
Senior Osint and Media Analyst. Ha praticato il mondo delle investigazioni e dell’intelligence. Appassionata di mare cani rock e figlia non necessariamente in quest’ordine.