La morte dentro. Gli invisibili che mettono a nudo la società senza umanità
“Non li guardiamo mai. Mai in faccia, mai negli occhi. Anche se ci fermiamo frettolosamente a depositare la monetina nella loro mano protesa lo facciamo abbassando il nostro sguardo, evitando il loro. E’ questo che li fa sentire invisibili, e quindi inesistenti. Sono invisibili, e quindi inesistenti perché noi non li vogliamo vedere, né far esistere.” Così lo storico giornalista del Tg1 Paolo Frajese, travestitosi da barbone, concluse nel 1988 il celebre reportage sui clochard di Roma. “Una testimonianza che fa vergognare l’Italia”, scrisse l’altrettanto famoso critico Beneamino Placido.
Seguirono 3 giorni di mea culpa e altri 30 anni di indifferenza. Dagli homeless nord americani e inglesi, ai clochard parigini, ai sin hogar di Madrid, agli obdachlos di Berlino: quello dei senza fissa dimora, dei barboni, è un fenomeno mondiale.
I media hanno comunque continuato a parlarne ogni giorno. Su giornali, news on line e social non sono mai mancate denunce e titoli su aggressioni, uccisioni, decessi per assideramento, ma anche manifestazioni di solidarietà, mobilitazioni di sanitari e volontari. Eppure, nonostante i riflettori della stampa, la società continua a ignorarli a farli sentire invisibili. Un’invisibilità che coinvolge anche le molte notizie positive: l’assistenza assicurata da Papa Francesco; gli “street store” dove si possono lasciare in dono abiti e oggetti utili; la clochard che ha partorito una bimba a Piazza San Pietro; la sempre più affollata messa annuale a Trastevere per commemorare Modesta Valenti, la donna che il 31 gennaio del 1983 morì davanti alla Stazione Termini dopo ore di agonia perché l’ambulanza si rifiutò di portarla in ospedale.
Storie senza seguito e senza commenti che galleggiano sugli stenti e sul dolore del popolo dei clochard. Un numero indefinito, fra le 50 e le 60 mila persone che sopravvivono ai margini delle città, per la maggior parte a Roma, Milano, Torino e Bologna.
Quasi sempre si finisce nella strada non per scelta ma per emarginazione. Le più esposte sono le persone socialmente deboli: disoccupati, indigenti, separati, sfrattati, portatori di handicap, disagiati psichici ex detenuti, alcolizzati. Dall’iniziale stato di indigenza si passa senza accorgersene alla marginalità e all’esclusione. Si crea cioè un circolo vizioso che diminuisce progressivamente la capacità dei senza dimora di muoversi come cittadini e di mantenere una condizione che consenta di partecipare attivamente alla vita della comunità. Gli esperti parlano di una graduale decomposizione ed abbandono del sé che determina il ritiro dal mondo esterno, dalla propria famiglia, dagli amici.
“La perdita del lavoro è il primo fra i motivi per cui una persona si ritrova a vivere in strada. Altre cause molto frequenti sono la perdita della casa, spesso conseguenza della separazione coniugale. Nessuno dei clochard che seguo ha scelto volontariamente di vivere in strada“ conferma Mirella Riva, Responsabile Urgenza Psicologica della Croce Rossa di Monza

Dal punto di vista sanitario e assistenziale che tutela viene assicurata ai senza tetto?
“Chi si trova a vivere in strada, assieme alla casa e al lavoro perde anche l’assistenza sanitaria di base con la scadenza della tessera in uso e la mancanza di una nuova residenza dove inviarne un’altra. Questa situazione rende problematica la possibilità di potersi curarsi . Per l’urgenza rimane il Pronto Soccorso. Il problema si pone per gli esami diagnostici o le terapie . Per il cittadino straniero è possibile aprire una tessera sanitaria provvisoria mentre per il cittadino italiano non esiste questa possibilità “.
Perché non vengono recuperati? Alcuni ne sono usciti. Per esempio Orwel e Picasso erano dei clochard
“Il recupero avviene su una percentuale molto bassa di persone . Più tempo si trascorre in strada meno possibilità ci sono per un reinserimento nella società. La persona che vive in strada, a causa delle condizioni di emarginazione molto spesso comincia ad abusare di alcol o di sostanze stupefacenti per sopportare le condizioni disumane in cui si trova a vivere. Altro problema è la delinquenza che spesso li vede implicati proprio per procurarsi qualche soldo per cibo, alcol e altro”.
Negli Stati Uniti, dove pure il fenomeno degli homeless è imponente, c’è il programma Housing First, e in Italia?
“Esistono diversi programmi di recupero tramite i servizi sociali, Sert, Noa e il conseguente reinserimento nella società. Purtroppo come spesso accade quello che si trova sulla carta non si riesce a metterlo in pratica per tanti motivi tra cui la collaborazione e il coordinamento tra i vari servizi che spesso è carente su più fronti anche strutturalmente .”
Bastano gli interventi di Croce Rossa, Caritas, e gli ambulatori di Medicina solidale, l’associazione di medici e infermieri volontari? E i comuni, le Regioni?
“Gli enti e le associazioni che si occupano dei senza tetto sono diverse, ognuna con competenze e mezzi propri, ma quello che sarebbe determinante invece manca. Cioè l’aiuto concreto da parte dello Stato”