by Augusto Cavadi
Anche la CEI, la Conferenza episcopale italiana, come Papa Francesco cui è molto in sintonia, oscilla fra posizioni non sempre dello stesso timbro.

Così, nonostante i progressi dai tempi di Benedetto XVI e del cardinal Ruini, in cui si riteneva ovvio interferire con le politiche governative mediante contatti diretti, un comunicato in reazione alla conferenza stampa del Presidente del Consiglio Conte sulla fase 2 della strategia anti covid-19, lascia per lo meno perplessi.
Come si legge sul sito ufficiale della CEI, “alla Presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia. I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.

Formulata così, la protesta appare ineccepibile: lo Stato fissa le regole, la Chiesa cattolica le rispetta e – all’interno dei paletti fissati – fa ciò che ritiene più giusto.
Se scrostiamo la superficie, il quadro non risulta però così evidente. In una logica democratica, la Chiesa cattolica non deve pretendere né più né meno di qualsiasi altra organizzazione religiosa, culturale, politica, sindacale, sportiva.
Il decreto del Governo italiano ha forse consentito assemblee, cortei, convegni, manifestazioni sportive – insomma occasioni di assembramento per decine o centinaia o migliaia di persone?
Se sì, i vescovi italiani hanno ragione da vendere. Ma chi ha ascoltato la conferenza stampa di Conte e letto i quotidiani del giorno dopo sa che non è così.
Perché, allora, dovrebbe essere consentito ai cattolici ciò che è vietato agli induisti, ai membri di un sindacato o ai tifosi di una squadra di calcio?
Si potrebbe obiettare che la CEI si è dichiarata disponibile a concordare rigidi protocolli per limitare il numero dei fedeli e per organizzarne la sistemazione logistica durante le celebrazioni liturgiche.
Bene. Ma se il governo accettasse queste proposte ufficiali, come potrebbe vigilare poi effettivamente sulla loro attuazione concreta in migliaia di chiese italiane?
Dovrebbe mandare carabinieri e poliziotti ad ogni messa per verificare se vengono rispettate le norme di sicurezza?
E, nel caso che qualche prete non le rispettasse, sarebbe immaginabile un intervento per sciogliere l’assemblea in preghiera?
Già in queste settimane le cronache ci hanno riferito di parroci che non hanno rispettato le norme valide per il resto dei cittadini: non sarebbe utopistico contare su un self-control generalizzato da parte di tutto il clero italiano ?

Dispiace che un organo gerarchico della Chiesa italiana si accodi al vezzo di tanti altri cittadini (non sempre in buona fede) che in queste settimane trovano motivi di lamentela – anche di segno opposto –per ogni decisione del Governo: tanto nessuno deve poi rispondere dei cattivi consigli elargiti…
Molti cattolici sono stati, e sono in queste ore, in prima linea nel “servizio ai poveri”: perché offuscare la limpidezza di questa testimonianza con la rivendicazione di privilegi ingiustificati?
Chi ha una vita di fede autentica la coltiva benissimo nell’intimità della propria stanza (come suggerito da Gesù secondo Matteo 5,6) o riscoprendo la prassi dei primi secoli di cristianesimo (in cui ogni famiglia era una “chiesa domestica”): ha accettato con senso civico la chiusura dei templi di pietra per alcune settimane, potrà attendere senza problemi qualche altro giorno.
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Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo