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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonio Borgia
Alcuni importanti storici, anche siciliani, hanno accreditato la tesi che l’invasione della Sicilia del luglio 1943, da parte degli anglo-americani, premessa alla successiva risalita in Continente e alla liberazione dell’Italia, sia stata una passeggiata grazie alla calorosa accoglienza ricevuta dalla popolazione, l’assenza di una resistenza dei reparti italo-tedeschi e l’incondizionato appoggio della mafia isolana.
È veramente accaduto questo?
Dopo tre anni di battaglie in Africa, nel maggio 1943 gli Alleati riuscirono a sconfiggere le truppe dell’Asse. Subito dopo decisero di invadere la Sicilia.
In previsione di ciò, gli anglo-americani conquistarono dapprima l’isola di Pantelleria (11 giugno), senza combattere, grazie ai bombardamenti che convinsero alla resa la guarnigione di 7.400 militari. Poi fu la volta delle isole di Linosa e Lampedusa.
La notte precedente lo sbarco in terra di Trinacria, intrapreso alle prime ore del 10 luglio 1943, l’operazione «Husky» ebbe inizio con l’invio di truppe speciali aviotrasportate (anche a mezzo alianti) –paracadutisti e ranger- che dovevano costituire le avanguardie dell’invasione e occupare punti strategici in attesa del resto delle forze.

Per portare i soldati a terra vennero scelte due zone: la costa sud-orientale, affidata alla VIII Armata inglese del generale Montgomery, e quella meridionale (Licata e Gela), affidata alla VII Armata del Generale Patton.
Come riportato da Andrea Augello nell’ottimo e documentato libro Uccidi gli italiani, alla conquista della Sicilia gli Alleati destinarono due forze navali di invasione con 181.000 uomini, 600 carri armati e 14.000 veicoli, superiori per uomini e mezzi agli italiani e tedeschi.
Sulla carta, l’invasione avrebbe dovuto realizzarsi in poco tempo con l’eliminazione delle forze contrapposte, anche per il netto predominio aereo.
Per i molti errori commessi dai vertici alleati e la forte resistenza dei reparti italiani, subito dopo rafforzata da quelli tedeschi (Divisione corazzata Hermann Goring), lo sbarco rischiò di essere respinto e portò alla sanguinosa battaglia di Gela, durata fino al 12 luglio, ricordata in specifici testi.
La campagna di Sicilia durò, così, più di un mese; vi morirono 8.000 uomini fra le forze italo-tedesche e 5.000 fra quelle alleate ma i reparti sopravvissuti dell’Asse riuscirono a rientrare in Continente attraverso lo Stretto di Messina.

Significativo quanto narrato nel predetto libro.
Secondo l’autore, lo spirito delle truppe d’invasione era molto aggressivo; volevano dare una lezione agli italiani.
A ciò avevano contribuito la rappresentazione della Sicilia come terra abituata allo sfruttamento da parte degli stranieri (libretto «The Sicily Zone Handbook» distribuito alle truppe britanniche), la parola d’ordine scelta per il riconoscimento fra truppe sbarcate e paracadutisti («Uccidi gli Italiani») nonché un duro discorso pronunciato da Patton ai suoi ufficiali avviato con la formula «Kill, kill and kill some…..» e l’aggiunta di dichiarazioni esplicite su cosa si aspettava dalle truppe «Se si arrendono quando sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira fra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero».
I risultati di tale premessa furono i molti accertati omicidi di civili innocenti nonché numerosi episodi di gratuiti crimini di guerra (a Biscari, nelle vicinanze dell’aeroporto, vennero fucilati almeno 70 soldati italiani che si erano già arresi, alcuni finiti con un colpo di grazia alla testa).
Nel 2004, un’inchiesta del «Corriere della Sera» segnalò altri casi di omicidi di civili e soldati prigionieri.
Fra i motivi dell’accanimento verso i soldati italiani, nel libro si ricorda un tragico episodio accaduto l’11 luglio, quando ancora i combattimenti erano in corso: 144 aerei Dakota della 52^ Aerobrigata, con a bordo 2300 parà americani, giunsero in vista della costa siciliana per il lancio sulla piana di Gela, al fine di consolidare le posizioni acquisite.
Gli aerei comparvero subito dopo un bombardamento della Luftwaffe contro le navi alleate e vennero scambiati per nemici.
Il fuoco contraereo amico colpì 60 Dakota (distruggendone 23), provocando 141 morti e costringendo molti paracadutisti a lanciarsi in zone lontane dall’obiettivo, con ulteriori vittime.
I corpi senza vita dei parà rinvenuti dalle truppe americane, in assenza di informazioni sul tragico errore delle navi, indusse a credere che fossero stati uccisi in aria o giustiziati dagli italiani, contribuendo ad alimentare l’odio.
Dopo la sconfitta nella battaglia di Gela, le truppe italo-tedesche si ritirarono sulla cd «Linea dell’Etna», che andava dalla piana di Catania al comune di Troina, ultimo baluardo per cercare di fermare le forze alleate e consentire agli altri reparti di porsi in salvo attraverso lo Stretto di Messina.
Dall’1 al 6 agosto, gli anglo-americani vennero bloccati e respinti dai nemici, arroccati sui monti Nebrodi e nel paese di Troina. L’impossibilità di avere ragione dei difensori nonché i numerosi contrattacchi portati dagli italo-tedeschi (ben 25) costrinsero a un pesante bombardamento aereo sull’abitato, completamente distrutto, e alla ritirata, dopo l’ultimo assalto americano, dei soldati che lo presidiavano.
Anche in questo scontro, le vittime da entrambe le parti furono considerevoli.
Per l’alto tributo pagato dai cittadini di Troina, 116 morti e un centinaio di feriti, nel marzo 2007 al Comune è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile.
La propaganda alleata raccontò l’invasione della Sicilia in ben altro modo; venne descritta come una passeggiata militare, omettendo di narrare gli errori decisionali e le sanguinose battaglie avvenute nonché evitando di diffondere immagini di propri soldati morti (in una circostanza, dopo un pesante scontro a fuoco nella piazza di un paese, vennero rimossi i corpi dei soldati americani, fotografando solo quelli italiani), invece privilegiando la facilità della conquista ed enfatizzando l’accoglienza festosa della popolazione siciliana verso le truppe anglo-americane.
Tale informazione diffusa ha così indotto molti studiosi di mafia a dar risalto agli accordi segreti fra l’organizzazione criminale e i servizi segreti americani (peraltro effettivamente intrattenuti), dando luogo alla convinzione che le truppe alleate non avessero praticamente combattuto grazie all’aiuto dei «picciotti».
In verità, gli Americani non hanno mai chiarito ufficialmente termini ed entità dell’apporto della mafia alle operazioni belliche in Sicilia, comunque sicuramente marginali.
Rimane accertato, però, che gli statunitensi convogliarono subito le attenzioni verso il mondo mafioso, prendendo contatti con diversi boss, utilizzandone alcuni per i contatti con la popolazione e, infine, dopo la conquista dell’isola, affidando a molti di essi e ai loro amici la gestione dei Comuni mediante l’incarico di Sindaco.
Documentato anche il ruolo del boss italo-americano Vito Genovese (della famiglia dei Genovese, fuggito in Italia nel 1937 perché ricercato per omicidio) quale aiutante e interprete del comandante militare degli affari civili dell’AMGOT, Charles Poletti (ex Governatore dello Stato di New York) sia in Sicilia che a Napoli, dove il mafioso contribuì a rendere florido il mercato nero.
