PAGINE
Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Maschilità, devianze, crimine (Meltemi, Milano 2018), di Cirus Rinaldi, non è un testo divulgativo, ma la sua tesi centrale merita di essere divulgata (anche dopo alcuni anni dalla pubblicazione).
Non é un testo divulgativo: infatti l’autore procede in fittissimo confronto con i sociologi, i criminologi, gli antropologi elencati nella bibliografia finale, che occupa ben venti pagine.
Tuttavia la sua tesi centrale merita di essere conosciuta ed esaminata: infatti, capovolgendo l’opinione tradizionalmente maggioritaria, consiste nell’affermare che i maschi, quando delinquono, delinquono non perché sono maschi, ma perché vogliono diventarlo.
A prima vista la tesi può risuonare sterilmente provocatoria: maschi si nasce, non lo si diventa (né consumando reati né compiendo imprese eroiche). Ma se questo è vero (abbastanza vero, non assolutamente) dal punto di vista biologico, non lo è dal punto di vista socio-culturale: sin dai primi vagiti, ciò che siamo per natura è modellato secondo le idee e i costumi dominanti nel nostro ambiente. Dunque siamo maschi o femmine anche, ma non esclusivamente né prevalentemente, per ciò che ci troviamo fra le gambe (il “sesso”): ma almeno altrettanto rilevante il ruolo che la società ci assegna (il “genere”). Non si tratta di questioni puramente teoretiche.

Se, come in questo denso testo di Rinaldi, ci limitiamo all’angolazione sociologico-giuridica, osserviamo che in una prima fase la criminologia di matrice materialistico-positivistica ha attribuito alla “essenza” del maschio la propensione a certi delitti e alla “essenza” della donna la propensione ad altri delitti (e ciò sino al punto, ad esempio, che per decenni la giurisprudenza ha stentato ad attribuire a donne responsabilità apicali nelle gerarchie mafiose perché ritenute prive delle qualità psico-fisiche e mentali necessarie).
Ma l’evoluzione della ricerca scientifica ha indotto una graduale, sostanziale, modifica: ci sono “vari tipi di maschilità” che “si (ri)producono, insieme ad altre dimensioni identitarie, proprio attraverso il compimento di condotte devianti e criminali” (p. 151): sia “giovani maschi, razzializzati, di classe operaia o sottoproletari che vivono in contesti svantaggiati economicamente”, sia “maschi privilegiati” appartenenti alla borghesia imprenditoriale, autori di “crimini specifici – come frodi finanziarie, peculato, riciclaggio, danni ambientali, etc. –”, “non fanno ricorso a condotte devianti/criminali perché mossi da predisposizioni, indole o propensioni <naturali>” (p. 152), sono “maschi che si sentono in dovere di fare i maschi ad ogni costo o che per sembrare maschi non possono rifiutarsi di fare qualcosa” (pp. 152 – 153).
Tipico il caso dei reati ai danni di donne, omosessuali e portatori di handicap che riducono le caratteristiche socialmente attribuite agli uomini: è dominando, offendendo, umiliando, picchiando questi ‘non-maschi’ che certi maschi rassicurano se stessi e gli altri di essere tali.
In queste tematiche la cautela non è mai troppa. Come l’essenzialismo naturalistico rischia di de-responsabilizzare i singoli soggetti (“E’ un maschio e si sa che il maschio è cacciatore…”), così altri approcci socio-culturalistici possono incorrere in errori simili (“Si è comportato così perché il suo ambiente sociale non gli aveva offerto altri modelli di maschilità…”). Ma la ricerca intellettuale è fertile quando, costeggiando gli estremi, ne apprende le parti di vero e le raccoglie verso sintesi nuove, se pur provvisorie. E soprattutto quando sa arrendersi agli enigmi antropologici: per quanto condizionati da tanti fattori biologici e sociali, agli esseri umani probabilmente resta un residuo, sia pur minimo, di libertà.
E’ ammettendo questa capacità irriducibile all’auto-determinazione che possiamo spiegare come mai non si possono stabilire leggi sociologiche assolute: in ogni tipologia di maschi, infatti, troviamo tanto criminali quanto soggetti proattivamente impegnati a rendere questo mondo meno invivibile.