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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
By Maria D’Asaro
Chi, come la scrivente, ha avuto la fortuna di leggere la poliedrica e nutriente produzione saggistica di Augusto Cavadi, sa che essa è composta da testi diversi per ‘peso’ e tipologia di approfondimento.
Se è consentito l’ardito confronto tra i vari libri dell’autore e le taglie dei vestiti, Cavadi potrebbe essere definito un saggista ‘sarto’, in grado di confezionare poderosi libri ‘large’ come Mosaici di saggezze, Il Dio dei mafiosi, In verità ci disse altro… saggi ‘medium’, come Il Dio dei leghisti, Presidi da bocciare, Quel maledetto 1992… libretti ‘small’ come Filosofare in carcere, La mafia spiegata ai turisti, Né Principi azzurri né Cenerentole. I lettori/fruitori delle diverse ‘taglie’ letterarie hanno sperimentato e continuano a sperimentare che tutti i suoi prodotti sono comunque caratterizzati dal filo rosso della qualità e della fruibilità dei contenuti.
Sono siciliano ma poteva andarmi peggio (Di Girolamo, Trapani 2022, euro 9,90) rientra nella categoria ‘small’: il libretto pocket (92 paginette) raccoglie, per sezioni tematiche, alcuni scritti dell’autore finalizzati a scrutare l’anima e il carattere dei siciliani, scritti già pubblicati in un’apposita rubrica del bimestrale Il Gattopardo.
Scorrendo le pagine del libretto, Cavadi invita a ‘sorridere riflettendo’ o a ‘riflettere sorridendo’ su vizi e virtù della sicilianità, nella consapevolezza, che “solo una Sicilia raccontata nei pregi e nei difetti potrà preparare all’incontro con la Sicilia effettiva: che non è un è paradiso, ma neppure un inferno.”
Ci si interroga in primo luogo sulla convinzione di noi siciliani di essere eccezionali “portati a valutare enfaticamente ciò che ci capita (…) allergici all’aurea mediocritas di oraziana memoria, ci percepiamo o molto in alto o molto in basso (…) ci vediamo abnormi e, non di rado, lo siamo davvero”.
E poi, questo essere effettivamente molto in alto o molto in basso, viene sottolineato nell’ambito della cultura: l’autore nota come in Sicilia manchi un ceto culturale intermedio a metà tra la geniale aristocrazia intellettuale – che ha visto giganti come Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Sciascia, Guttuso, Consolo, Camilleri – e, ahimè, l’assai diffuso ‘sottoproletariato cognitivo’, per utilizzare una felice espressione di Davide Miccione.
Purtroppo, dunque, proprio nella scarsa propensione alla cultura, intesa come volontà di informarsi, studiare, approfondire criticamente le conoscenze, “affondano le radici i ritardi più eclatanti della Sicilia, dal punto di vista della moralità civica e della maturità pubblica come della ricerca scientifica e della produttività economica”.
Altra questione che riguarda il carattere dei siciliani: sono davvero irredimibili contravventori delle norme e inclini all’illegalità?
Anche qui, è difficile essere univoci: Palermo, ad esempio, è stata sia capitale della mafia che capitale dell’antimafia; e come tale “ha generato criminali indegni, ma anche cittadini integerrimi che – pur nell’epoca dell’indifferentismo e della concentrazione sul privato – hanno saputo subordinare al bene comune la loro intelligenza, le loro energie, persino la loro vita.”
Ma come sono visti i siciliani dall’esterno?
Cavadi riporta alcune considerazioni di autorevoli ‘forestieri’, tra i quali lo studioso francese Philippe San Marco e il regista tedesco Wim Wenders. Per il primo, “Lealtà, interesse generale, amore della Patria, senso civico, cittadinanza, rispetto delle istituzioni, fiducia nella società” per i siciliani non sono altro che parole ‘prive di senso’.
Cavadi non si scandalizza per un giudizio così duro, invita anzi i lettori ad agire concretamente perché le considerazioni di San Marco possano risultare domani infondate.
Wim Wenders, invece, rimarca il forte senso della vita e della morte, indissolubilmente legati nella nostra isola: “Qui ci sono le catacombe, la festa dei morti, un dipinto come ‘Il trionfo della morte’ (…) Io credo che una città possa avere un forte diritto alla morte solo se ha un forte rapporto con la vita”.
“Questa familiarità con la prospettiva della morte però – sottolinea Cavadi “ha agito e agisce nella società siciliana come una lama a doppio taglio”: ad esempio, spinge molti a polverizzare i risparmi di anni per una fuggevole ‘mangiata’ in occasione di nozze o battesimi, per una sorta di concentrazione sull’attimo presente che cancella ogni progettualità oculata per il futuro e può anche portare allo sprezzo della vita propria e altrui da parte di tanti criminali, ma può anche avere la valenza positiva dei tanti, uomini e donne “che hanno affrontato lo strapotere mafioso con la piena consapevolezza dei rischi che correvano e corrono”.
Buona lettura, dunque. E grazie a Cavadi che, con ironia e leggerezza, invita i lettori a ‘pelare’ l’assai stratificata cipolla della sicilianità…