by Emanuela Locci *
Negazionismo epidemiologico made in Turchia. Oltre che per la strumentalizzazione dei profughi siriani, mandati allo sbaraglio alla frontiera con la Grecia per ricattare l’Europa, la Turchia è uno stato canaglia anche nell’emergenza sanitaria?
Il ministro della sanità, Fahrettin Koca, ha infatti rilasciato nelle ultime ore enfatiche dichiarazioni che assicurano che in Turchia non si registrano casi di coronavirus e che sono state messe in campo tutte le misure per impedire che il virus possa entrare nel paese.
Affermazioni in evidente contrasto con quanto accade effettivamente in Turchia. Del resto sembra poco credibile che proprio il paese ponte fra l’Europa e il Medio Oriente sia l’unico non interessato al fenomeno epidemico che ormai ha raggiunto proporzioni mondiali.
La vicinanza all’Iran non aiuta affatto, anzi è a dir poco allarmante. Fino ad oggi, secondo gli stessi dati ufficiali, sono stati sottoposti a controlli con i tamponi circa 2000 persone rientrate dall’Iran, dove il coronavirus sta provocando una strage.
Anche se Ankara nega, sono stati riscontrati i primi casi di positività proprio tra queste persone. Pochi giorni dopo sono stati riscontrati altri casi di contagio tra il personale che lavora nelle zone che si trovano a sud est del paese. Oltre questi si è registrato un focolaio ad Istanbul, dove tutte le persone a contatto con i contagiati sono state isolate immediatamente.
Il governo di Ankara ha però deciso di scegliere una linea di condotta negazionista diametralmente, per non dire sfacciatamente, opposta alla trasparenza.
Le autorità hanno deciso di non divulgare notizie inerenti ai contagi e hanno dichiarato che le persone che si stanno ammalando in questo periodo hanno contratto una semplice polmonite, che non ha niente a che vedere con il coronavirus.
Molteplici le ragioni della condotta del Governo Erdogan che mette in grave pericolo il popolo turco, favorisce l’espansione incontrollata dell’epidemia ed espone a tragici rischi anche i paesi vicini. I voli aerei turchi sono infatti ancora operativi per la maggior parte delle destinazioni e rappresentano un concreto veicolo di contagio. In questo caso non sono stati presi provvedimenti per limitare i possibili danni, infatti sono stati chiusi solo i confini con i paesi già compromessi dal contagio.
L’ostinata negazione della diffusione del coronavirus è cinicamente funzionale soprattutto a tentare di scongiurare, o di attenuare quanto più possibile, il collasso economico. L’economia della Turchia è già duramente provata da una recessione endemica che la caratterizza ormai da anni. Il già debole sistema economico turco non potrebbe sopportare anche le conseguenze di un blocco pressoché totale dell’ intero apparato produttivo. Se la Turchia ammettesse ufficialmente la proliferazione dei contagi le ripercussioni dal punto di vista finanziario sarebbero disastrose. Infatti bisognerebbe mettere in conto l’isolamento derivante dall’interruzione dei rapporti economici, oltre alle questioni di ordine pubblico, con una popolazione che probabilmente entrerebbe in panico, considerando anche la già pesante situazione economica.
In National Virology Lab di concerto con il ministero della salute sta comunque conducendo accurate ricerche sui ceppi del virus isolate nel territorio turco e definendo il protocollo da seguire nel caso di pandemia. Con queste azioni il governo Erdogan sostiene di aver contenuto il contagio, anche se in via precauzionale ha allertato l’esercito che è pronto ad intervenire in caso di necessità per aiutare la popolazione in difficoltà e in special modo controllare e reprimere eventuali proteste. Secondo le ultime stime si prevede che il numero dei contagiati possa raddoppiare ogni quattro giorni,tanto che le autorità stimano di avere 1000 persone malate entro il 20 marzo.
Tutte le notizie che vengono fatte filtrare non solo sono censurate, ma sono davvero minimali e lasciano temere una situazione angosciante con conseguenze non preventivabili per l’intera Turchia.
* PhD di Storia e Istituzioni di Asia e Africa presso il Dipartimento storico politico e internazionale della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Cagliari