Maria Luisa Spaziani definiva la poesia “un diario del profondo”. Nulla di più vero perché la poesia, e certa poesia in particolare, pesca nell’inconscio, indaga l’ignoto che vive clandestinamente dentro di noi, tenta di dire l’indicibile.
D’altra parte prima Sigmund Freud e poi, con più approfondito studio, Carl Gustav Jung si sono occupati del legame tra la poesia e la psicologia dinamica.
Per il padre della psicanalisi, il poeta è un adulto che costruisce un mondo a sé, come il bambino fa con il gioco, e il suo fantasticare presuppone uno stato d’insoddisfazione: “L’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa”; inoltre, per Freud, nel processo creativo vi è qualcosa di assai simile all’elaborazione onirica in entrambi i casi attingendosi dall’infanzia. Jung, che tratta il tema nel saggio Psicologia e poesia, mette in luce come certe opere si impongano prepotentemente all’autore al di là della sua volontà cosciente: è l’inconscio che irrompe, supera le barriere e trova nei versi la sua grammatica.
All’enigmatico rapporto tra la psicologia analitica e la poesia rinvia la lettura dell’ultima raccolta del giovane poeta palermitano Pietro RomanoFeriti dall’acqua, edita da peQuod. Una silloge in cui l’autore cerca di afferrare l’inafferrabile flusso di coscienza attraverso un dire poetico fisiologicamente ermetico.
I suoi versi cadenzati e sorvegliati, espressione di una maturità stilistica frutto di una consapevole dimestichezza con la poesia del Novecento e contemporanea, sono il risultato di un doppio travaglio: quello della ricerca nel “remoto” che naviga nelle acque comunque agitate dell’inconscio e quello del tentativo di dare forma alle percezioni avvertite nel suo introspettivo viaggio esplorativo: un tentativo riuscito, quest’ultimo, ma che immaginiamo assai faticoso. Le poesie di Feriti dall’acqua infatti sono tutte brevi, alcune brevissime, e ciò fa presumere una paziente e gravosa levigatura del coacervo amorfo e vago di impulsi e sentori raccolti nello scandaglio interiore; né la poesia, per quanto veicolo privilegiato dei sentimenti più intimi, riesce a sbrogliare ogni groviglio o a trasfigurare ogni meraviglia: “Come tradurre l’azzurro arreso del cielo, / quando, con l’odore di terra riarsa, le parole / separano le nubi dalle nubi, gli uccelli / dagli uccelli, le foglie dalle foglie?”.
Tanto ci suggerisce e ci lascia intuire il titolo della raccolta, Feriti dall’acqua, se si vuole insistere sullo stretto legame tra la poesia – e questa poesia, nella specie – e la psicologia del recondito. Che cosa vi è infatti di più misterioso e insieme di vitale e fluido dell’acqua? L’acqua si rivela fonte della vita e principio primo di tutte le cose nella filosofia presocratica e anche nella mitologia di civiltà antiche diverse e lontane, richiama la fertilità della natura e la profondità dell’utero avvolgente, la fecondità e la maternità. Per Jung, “l’acqua in tutte le sue forme – in quanto mare, lago, fiume, fonte – è una delle tipizzazioni più ricorrenti dell’inconscio, così come essa è anche la femminilità lunare che è l’aspetto più intimamente connesso con l’acqua”.
E per la sua allieva Norma Bärgetzi Horisberger “noi tutti abbiamo navigato nel mare uterino delle nostre madri e l’acqua ci ricollega a uno stato in cui non ci sentivamo ancora separati dal grande universo”. Probabilmente il titolo allude alle ferite che dall’inconscio affiorano o che da quella “separazione” scaturiscono – riconducibili all’infanzia, come s’indovina in molte poesie, soprattutto quelle legate ai genitori, alla madre soprattutto -: ferite che l’autore sa di non potere sanare attraverso la poesia, che non è una medicina e non ha poteri consolatori, ma è solo un tramite per dare voce e forma alle proprie sofferte elucubrazioni e alla propria sete di comunicazione.