PAGINE
Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
La trascuratezza della memoria comporta che ogni generazione – di studiosi, magistrati, poliziotti, giornalisti – che si occupa di mafia e dei fenomeni criminali connessi, cominci ogni volta come se fosse la prima.
Con spreco di energie rispetto a un metodo differente che consistesse nel riprendere il filo delle indagini da dove sono arrivati i predecessori.
Ben vengano dunque i volumi, come questo poderoso di quasi cinquecento pagine a firma di Salvatore Mugno, Nascita della mafia. Storie di “uomini d’onore” istruite in Sicilia (1838 – 1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del re che scoprì la piovra, Navarra Editore, Palermo 2025.
In effetti, nelle relazioni di questo giovane ma determinato funzionario inviato dal governo borbonico a Trapani per contrastare la criminalità dilagante, ci sono molti elementi per definire le cosche mafiose distinguendole dalle coeve espressioni di banditismo e di delinquenza comune: “fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di protegger un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo (…). Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono dei mediatori ad offrire transazione per ricuperamento degli oggetti involati. (…) Molti alti funzionari (= magistrati) coprono queste fratellanze di un’egida impenetrabile. (…) Le casse sono talvolta comuni in più provincie ad oggetto di commetter furti e di commerciare di animali rubati da una provincia all’altra” (p. 31). Abbiamo infatti alcuni tasselli fondamentali di ciò che oggi possiamo chiamare mafia:
-
una galassia di associazioni stabili (“fratellanze”),
-
strutturate gerarchicamente (“dipendenza da un capo”),
-
in collegamento interprovinciale (“in più province”),
-
con lo scopo di controllare le istituzioni statali (“esonerare un funzionario” o “proteggerne” un altro) e
-
accumulare illecitamente riserve finanziarie (“una cassa comune” alimentata da intermediazioni fra rei e vittime come nel caso di “oggetti rubati”).
Tali cosche non si formerebbero e, comunque, non persevererebbero senza un collegamento con il più ampio contesto sociale:
-
la popolazione in generale (“il popolo è venuto in convenzione coi rei”),
-
il potere politico-giudiziario (“alti funzionari”),
-
economico (“un possidente”) e
-
religioso (“un arciprete”).
Il Procuratore Generale del Regno delle Due Sicilie Pietro Calà Ulloa
Secondo altri documenti di Calà Ulloa, il consenso alle cosche mafiose non è da attribuire in maniera indifferenziata alla cittadinanza: egli distingue, con onestà intellettuale pari all’acutezza analitica, l’acquiescenza della povera gente (che accetta “i soprusi, le prepotenze, la licenza” dell’upper class isolana) dalla complicità dei ceti dominanti (“Signori” dell’aristocrazia, “possidenti”, “Giudici”) che vengono a patti con i mafiosi per paurosa viltà o più spesso per espliciti interessi (p. 15).
Notiamo, come fra parentesi, che a questo giovane Procuratore si può attribuire l’invenzione della mafia (denominazione che egli non usa) nell’accezione latina del termine, dunque come sinonimo di ‘scoperta’ più che di ‘creazione’.
Egli (fedele alla corona borbonica sino alla fine, dopo lo scioglimento del Regno delle Due Sicilie e l’Unificazione italiana) guadagna molto presto la fiducia del re (Ferdinando II) e dei ministri, comportandosi quasi come “un ‘agente segreto’ di Sua Maestà” (p. 59), perché sa coniugare la diagnosi dei mali con la determinazione operativa nel combatterli.
La diagnosi è di una lucidità impressionante: l’Isola gli appare “abbandonata del tutto. Scarsa di popolazione, senza strade, senza commercio, senza industria, colle prepotenze del patriziato e le insolenze della plebe, la Sicilia resta tutt’ora come un anacronismo nella civiltà europea” (p. 67). Le autorità che dovrebbero porre un freno alle illegalità pervasive sono spesso le prime responsabili del degrado. Infatti non solo gli avvocati sono “avidi, ignoranti, baldanzosi, immoralissimi”, ma “la venalità e la sommessione ai potenti ha lordato le toghe di uomini posti nei più alti uffici della magistratura” (p. 68). “In questo quadro desolante” – nota Mugno in riferimento a vari casi riportati nei documenti inediti da lui compulsati – “un altro punctum dolens era costituito dalle compagnie d’armi”, eserciti privati che, protagonisti di “insopportabili abusi”, furono nel 1837 assorbiti nella Gendarmeria reale (p. 69). Infatti di norma chi subiva un furto (soprattutto bestiame) preferiva rivolgersi non alle autorità statali ma a “campieri” (o altre “ambigue figure”) che mediavano fra la vittima del furto e i ladri concordando una somma (detta anche componenda) per il riscatto della refurtiva (cfr. p. 102). 
Ma il Procuratore non si limita alle analisi, passa all’operatività. Davvero – come suggerito da Giovanna Fiume – Pietro Calà Ulloa può essere considerato uno dei primi “giudici d’assalto” per “il suo consapevole e pervicace contrasto alla nascente mafia ante litteram” (p. 54): “il primo, vero, consapevole, inflessibile pubblico ministero antimafia della nostra storia” (p. 59). E, proprio come accadrà puntualmente per altri magistrati successivi ‘troppo’ diligenti, “si trovò al centro di un turbillon di esposti e ricorsi, a causa della sua intransigenza morale e della sua correttezza professionale” (p. 141).
Correttamente Mugno riferisce anche l’opinione di quegli storici, come Salvatore Lupo, che forniscono della figura e dell’opera di Calà Ulloa un’interpretazione diversa e meno entusiastica (cfr. pp. 55 – 58).
In conclusione, la lettura di questo volume (più scorrevole nella prima parte, più impegnativa nella seconda in cui vengono riportati in forma di racconti molti episodi criminali ricostruiti sulla base di documenti archivistici) conferma la tesi che se cresce la conoscenza si accresce la sofferenza: è doloroso, infatti, constatare che rispetto a due secoli fa la società siciliana e lo Stato italiano hanno compiuto molti passi in avanti, ma molti ancora ne restano da compiere.
