Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta storie di vita e vicende vissute
by Rosanna Badalamenti
“Giò amuni’ ca ci andiamo a prendere il caffè.” Da qui è partito tutto. Entrando in un bar, io e Giò abbiamo assistito a uno spettacolo di pura vita, bella, piena, genuina, vera. Cose semplici dal sapore intenso.
Giò, intanto, non sta né per Giovanni, né per Giole, né per Giorgio. “Giò” sta per gioia.
Lo si dice per simpatia, per affetto, per amore, per stima e quindi puoi chiamare “Giò” un’amica, un amico, un parente, l’amore tuo, tua sorella, la tua parrucchiera, il tuo amico fruttivendolo, ma anche un canuzzo, un gattino. 
Noi siciliani, spesso, quando ci dobbiamo chiamare, usiamo le paroline accentate: curò (cuore), amò (amore), vitù (vituzza).
Mettiamo gli accenti anche sui nomi propri: Davidu’ (Daviduccio), Simò (Simona), Rosà (Rosanna, Rosaria, Rosalba), Sasà (Rosario), Totò (Salvatore).
Sui nomi comuni: fraté, soré, zizì, nonnò, cucì, ma non é detto che ci sia un reale ed effettivo grado di parentela.
Nella storia in questione, Giò è mia sorella, quella tutta atletica, ginnica, magra. In sostanza, in comune con me solo il sangue, il sorriso e gli occhi di nostro padre.
Credevamo fosse solo un bar, ma ad arricchirlo c’era una grande sezione dedicata alla rosticceria e alle arancine di tutti i gusti: ca carni, cu burro, cu spinaci, cu u salmoni.
Quando entriamo, io mi perdo nei colori, gustando in memoria i sapori. Mia sorella, invece, va dritta al banco del caffè, mi guarda con aria schifignusa (scettica) e attenta sempre alla linea, mi dice:
“Rosà, ma chisti sù bummi calorici!” (Bombe caloriche)
E io:
“Sì, Marié, sono tricchi tracchi e bummi a manu di pura bontà, io caffè un ni voghiu chiù. Aspetta vedo che mi devo prendere.”
E do un’occhiata. La panoramica mi lascia l’acquolina in bocca.
Guardo tutti i “pezzi”. Li chiamiamo così noi palermitani i calzoni, le pizzette e tutte le specialità della nostra rosticceria.
Io non conosco tutti i nomi dei pezzi e penso che nessuno in realtà li conosca, è nostra abitudine chiedere prima di prenderli:
“Scusassi, chi c’è dà dintra?” (Scusate, cosa c’é dentro?)
Indicando con il dito il pezzo individuato con tutti gli organi sensoriali.
Il signore che sta dietro il banco é un maestro vero e proprio e quando spiega il contenuto di ogni pezzo noi consumatori stiamo molto attenti.
“Docu c’é besciamella, prosciutto cotto e n’anticchia di emmental. Bonu è, su pigghiassi.”
Aspittassi, aspittassi… cà na chistu rutunnu chi c’é di dintra? (Un attimo, qui, in questo dalla forma rotonda, cosa c’é dentro?)
“Chistu é cu u salami, pumaroru e mozzarella.”
Gli odori e i colori si fondono e ciò che ne esce fuori é meraviglia per gli occhi e per il palato.
Mentre io sono confusa “mmenzu u beni” (confusa in mezzo al bene) e mia sorella sorseggia il suo caffé, entra una bella famiglia: marito, moglie e due bambini. Io quantifico grossomodo l’età dei due maschietti, 8 e 10 anni, belli più del sole come tutti i bambini, capelli corti, freschi, carnagione scura, abbronzati, occhi castani, vispi. Si stuzzicano a vicenda e ridono, si somigliano, indossano il costume uguale blu con una striscia bianca, infradito rossi.
Tutti ci ritroviamo a guardare la vetrina multicolore.
“Allura, pi mia tri pezzi, picchi a iurnata é longa e u mari, si sapi, metti pititto.” (Allora, per me, tre pezzi, perché la giornata è lunga e il mare, si sa, mette fame.)
Io confermo con la testa, ma la moglie è contrariata quanto mia sorella, la cui espressione si incupisce intenta a fare calcoli di calorie per tre pezzi.
Io con gli occhi le dico di farsi i conti suoi, ma nel frattempo io invece continuo a farmi i fatti della famiglia. Lui, il marito, é un omone alto, ha la stessa imponenza di un bronzo di Riace però più rotondo, senza capelli, barba incolta, occhiali da vista e montatura leggera, appena li alza, scopro di chi sono gli occhi dei bambini, lui ce l’ha più incavati, certamente è anche una questione di età, carnagione scura.
Camicia beige, semi aperta, con collanina in caucciù con un’ancoretta in metallo, pantaloncini verde scuro con il laccio davanti, infradito rossi, più sciupati rispetto a quelli dei bambini.
La moglie lo guarda e dice:
“Tre? Uno ti basta!”
“Uno? Picchi chi sugnu malato?” (Uno? Perché sono malato?)
Io, sempre d’accordo con le parole del marito, rispondo: Non é malato, non si trova, grazie a Dio, in ospedale né a casa con la pastina in bianco. Può mangiare, raticcilli sti tri pezzi a dù cristianu! (Dateglieli!) Lo dico mentalmente, ma si vede che tifo per lui, infatti annuisco col capo.
Mia sorella, d’accordissimo con la moglie, esclama timidamente:
“Ma veramente, se non é malato ci diventa, picchi gli si alza il colesterolo.”
Sembra che ci sia telepatia tra mia sorella e la moglie. Difatti, quest’ultima un secondo dopo dice con un tono un po’ alterato:
“Prenditene due allora, perché il dottore ti ha detto che hai il colesterolo alto, devi stare attento.”
Il marito allora guarda il mastro della rosticceria che aspetta ancora che io mi decida, e gli dice, pretendendo ragione:
“Picchi i duttura ti pari ca un si ‘nni manciano? Iddi sù scarti a tia ti ricinu un bivissi, un manciassi, un fumassi e iddi manciano vivino, fumano e sinni futtinu.” (Anche i dottori li mangiano. Sono furbi loro, a te dicono di non bere, non mangiare e non fumare, mentre loro mangiano, bevono e se ne fregano.)
“Tu che vuoi, amò?”
Spostando di nuovo lo sguardo verso la moglie. Una bella signora non magra, ma con la carne che sta al posto giusto, occhiali che non ha tolto, dalla montatura nera ampia e rotonda, capelli neri mossi, raccolti da un pinzone bianco che a stento li tiene, una ciocca sfugge e ne mostra così la lunghezza, si ferma un po’ più sotto del décolleté abbondante e fa da bella cornice a un viso ovale, fine, rosato dall’abbronzatura.
Indossa prendisole corto, bianco, scollato, che tenta di nascondere un costume rosso, belle gambe, slanciate, belle ciabatte di mare sulle quali faccio un pensierino, anche io le voglio così, sono altine e comode, rosse con fascia trasparente, per noi un metro e tanta voglia di crescere vanno bene, unghie rosse come quelle delle mani, curate anche queste.
“Io non ho fame, ho fatto colazione tardi, perciò poi mangerò una granita a pranzo.” _ risponde lei.
Il marito, allora, con espressione alquanto incredula ribatte:
“Miii…un n’ hai fami? Io mi manciassi macari a tia…” (Non hai fame? Io mangerei anche te…)
Facendo capire che insomma anche lì è presente e non vuole tenere conto dei numeri. Lo si intuisce dal modo in cui la moglie raccoglie in un sol movimento le labbra carnose, non truccate, e le racchiude spostandole un po’ sul lato destro per poi aprirle mostrando un sorriso ammiccante verso il marito che soddisfatto ricambia. C’è intesa fra i due. Ed è bello. La battuta rimane pulita e si ferma lì.
Si rivolge ai bambini:
“Chi buliti picciriddi?” (Che volete, bambini?)
Papà io la pizzetta.
Papà io l’arancina cu u burru e n’atra cosa, ma pozzu pigghiari? (Papà, io l’arancina con il burro, ma un altro pezzo lo posso aggiungere?)
Lo chiede guardando la mamma, la quale, con occhi che non vedo perché sempre nascosti dagli occhiali, risponde:
“Amore, ti puoi prendere un solo pezzo e parla bene.”
Mettendo in evidenza che la frase in lingua siciliana con la quale il bambino si era espresso, non le era piaciuta.
Io allora, che già mi stavo facendo i fatti loro ma non avevo ancora parlato, intervengo:
“Signora, complimenti per questi bambini bellissimi, lui ha finito la terza elementare e lui la quinta, vero? Hanno parlato bene tutti e due, signora. La nostra lingua è il nostro orgoglio, al pari del mare, del sole, dei musei, della storia, della cucina, dei ‘pezzi’ e di tutto ciò che di bello abbiamo. Se sappiamo parlare il siciliano come l’italiano, a nuatri ‘u Re ni veni porcu’, non volendo offendere nessun re, presente o passato, perché lei lo sa bene, è un’espressione tipica nostra per indicare una situazione di benessere, addirittura superiore a quella del Re che, nell’immaginario comune, non ha nessun problema di nessun ordine, genere e tipo.”
Prima che risponda la signora, che già mi ha esternato un bel sorriso dai denti curati, parla il marito:
“Viva la Sicilia cu tutti i siciliani!!”
C’è allegria dentro il bar!
Ora un momento di silenzio, il maestro deve continuare a spiegarci cosa c’è dentro ogni pezzo. Finalmente decidiamo. Io prendo il pezzo con salame, mozzarella e pomodoro.
“Signora, lei su mancia cà o glielo avvolgo?”
“No, cà… cà mu manciu cavuru cavuru.” (No, qui… lo mangio caldo caldo.)
“Si pagassi puru u café di quella signora, é me soru!” (Pago anche il caffè di mia sorella) dico al cassiere.
Sorride lui, sorride mia sorella, quelli con i pezzi in mano però sorridiamo di più.
Quando stasera la mamma del signore dei tre pezzi gli chiederà:
“Manciastivù?” ( Avete mangiato?)
Lo fa ogni mamma e non importa l’età. È una domanda di puro amore per noi.
Io, per le affinità, immagino già la sua risposta:
“Ni pigghiamu sulu du pezzi.” (In Sicilia diciamo due, intendendo anche multipli di due, a volte anche a due cifre!)
“Metti a pignata ca semu diuni!” (Abbiamo mangiato solo due pezzi, metti la pentola perché siamo digiuni.)
Picchi nuatri siciliani, se non mangiamu du fila di pasta, ni sintemu sempri cu stomacu vacanti. (Perché noi siciliani, se non mangiamo la pasta, ci sentiamo sempre con lo stomaco vuoto.)
Nell’originalissimo siparietto di sicula vita quotidiana di Rosanna Badalamenti si possono scorgere, in una sorta di coctktail artistico, spunti che ricordano “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman, “Miseria e nobiltà” di Eduardo e una spruzzata di “Gattopardo”. Ma la vera protagonista, assieme al dialetto, é la rosticceria siciliana, specialità tipica in particolare di Palermo, che accompagna l’altrettanto tradizionalissimo street food della capitale dell’Isola: pane e panelle, pane con la milza, panini con crocché di patate o melanzane fritte ed i leggendari sfincionelli. Una gastronomia popolare riflesso dell’arte di bypassare l’indigenza. Intrisa di cultura e dotata di una capacità espressiva dialettica che rappresenta il crogiolo di tutte le civiltà mediterranee.