P A G I N E
Rubrica di critica recensioni e anticipazioni
by Augusto Cavadi
Una volta ci si augurava Buona Epifania, poi – pian pianino – si è passati a Buona Befana (un po’ come “Buona Assunzione” è diventato un più allegro e fruibile “Buon Ferragosto”).
Slittamento linguistico conseguente alla secolarizzazione galoppante? Forse. Ma certi mutamenti non avvengono senza una concomitanza di motivi.
Una prima concausa – che può apparire più banale di quanto effettivamente sia – è l’ignoranza.
La media statistica degli italiani non conosce il significato della parola “Epifania” e la ode – e la ripete – solo nella frase popolare: “Epifania tutte le feste porta via”.
Che questo vocabolo greco significhi “manifestazione” (del Signore) è ormai noto a minoranze sempre più esigue.
Più seria una seconda concausa: la maggior parte dei cattolici non crede che le pagine del vangelo di Matteo (2, 1 – 12), dedicate alla “manifestazione” di Gesù ai pastori e ai re Magi, riferiscano eventi realmente accaduti.
Le omelie più frequenti non si preoccupano di interpretare questo scetticismo e, così facendo, i fedeli si sentono sempre meno a proprio agio nelle liturgie natalizie: perché radunarsi e fare memoria di avvenimenti immaginari, privi di una solida base storica?
Non è più divertente fare finta di credere al viaggio di Babbo Natale fra renne, slitte e camini fumanti?
Diversamente andrebbero le cose se i predicatori – più informati teologicamente e più desiderosi di comunicare ai fedeli le acquisizioni delle scienze bibliche – spiegassero che i vangeli non sono resoconti storiografici, ma proposte di vita.
Quando Matteo racconta ciò che leggiamo vuole senz’altro accendere la nostra “fede”: ma in che senso?
Non “fede” nel fatto che le vicende prima e dopo il parto di Maria si siano svolte in una determinata maniera piuttosto che in un’altra (egli stesso, scrivendo dopo circa mezzo secolo dagli avvenimenti, non aveva dati esatti); bensì “fede” nella possibilità che la persona e il messaggio di Gesù di Nazareth possano cambiare la vita della gente.
Per presentare questo ‘piatto forte’ ogni evangelista si serve del ‘contorno’ che ritiene più adeguato: nel nostro caso del genere letterario “midrashico”.
Di che si tratta? Come spiega molto bene Ortensio da Spinetoli, “per i moderni esegeti il midrash non è più sinonimo di favola, leggenda, mito. Più che una libera composizione è una ricostruzione personale dei fatti evangelici alla luce e con l’aiuto della tradizione biblica, canonica o extra-canonica. L’autore racconta la sua storia, si può dire, guardando soprattutto al passato e cercando negli avvenimenti antichi l’illustrazione dei nuovi. Preso da questa preoccupazione, perde di vista i dettagli reali degli avvenimenti che narra sostituendoli con altri tratti dai racconti che ha in mente o sotto gli occhi” (Introduzione ai vangeli dell’infanzia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018, pp. 45 – 46).
Allora al redattore del vangelo secondo Matteo sta a cuore predicare l’essenziale: che Gesù è stato un profeta anomalo, dedito più alle fasce emarginate (i “pastori” venivano considerati, per la loro abituale familiarità con le greggi, dei semi-uomini) e agli stranieri (i “magi” come rappresentazioni letterarie del mondo extra-ebraico interessato a Cristo molto più di tanti ebrei), che alla difesa degli interessi dei ceti sociali dominanti e dei confini identitari del proprio popolo.
Avere “fede” significa, dunque, aderire a questa prospettiva sulla vita propria e sulla storia del mondo: il resto è solo il ‘veicolo’ attraverso cui quella proposta di apertura, di fiducia, di accoglienza della diversità, di solidarietà universalistica…viene trasmessa.
Certo, se i preti spiegassero come stanno davvero le cose, milioni di buoni cattolici uscirebbero silenziosamente dai templi per non metterci più piede. Ma, forse, i posti rimasti vuoti accoglierebbero uomini e donne che – attualmente – si mantengono a debita distanza dal mondo ecclesiale perché preferiscono vivere i valori etici fondamentali anziché sentirsi spacciare come eventi miracolosi delle narrazioni ricollegabili alla “esegesi edificante, omiletica, teologica, folcloristica degli scrittori giudaici” (ivi, p. 46).