By Michela Mercuri
L’Algeria brucia ma pochi ancora sembrano aver compreso la gravità del problema.
Il gigante da 40milioni di abitanti che guarda all’Italia da poche miglia marittime di distanza, e che veniva considerato da molti “immutabile nel suo rassicurante immobilismo” si è risvegliato tra lo stupore dei più.
Eppure da tempo l’Algeria aveva lanciato segnali inequivocabili di crisi. Un leader al potere dal 1999 gravemente malato e incapace di governare, un sistema bloccato dallo strapotere dei clan a lui vicini, uno Stato consolidatosi grazie alla rendita degli idrocarburi, da qualche anno in netto calo, una legittimità che si basa sulla paura del ritorno del sangue versato negli anni Novanta. Tutto lasciava presagire al possibile dramma che potrebbe destabilizzare l’intera area.
Le cause
Le sollevazioni popolari che hanno investito l’Algeria – sia la capitale, sia molte altre città del Paese – negli ultimi giorni, sono riconducibili a molteplici cause. In primo luogo la decisione di Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, di ricandidarsi per un quinto mandato alle elezioni del prossimo 18 aprile. Le su precarie condizioni di salute sono evidenti oramai da qualche anno e il vecchio leader non è considerato, a ragione, in grado di governare. E’ evidente che la popolazione, e soprattutto la classe giovanile, soffra l’impossibilità del cambiamento e l’imposizione dall’alto di uno status quo oramai insostenibile. Ci sono poi altre problematiche legate alle condizioni socio-economiche del paese. Il tasso di disoccupazione giovanile è arrivato a toccare quasi la soglia del 30% e tra la popolazione cresce la percezione della crescente corruzione che permea le istituzioni. In questo contesto di estrema fragilità la diminuzione del prezzo del petrolio ha costretto il governo ad optare per una forte restrizione della spesa pubblica e a un aumento della pressione fiscale acuendo il malcontento popolare. L’economia algerina, infatti, è ancora fortemente dipendente dalle esportazioni di idrocarburi e, come in ogni rentier State, il potere del leader è connesso alla redistribuzione dei proventi. L’equazione è semplice: con il crollo delle entrate crollano anche gli equilibri politici e il consenso.
Gli equilibri interni
La situazione interna è molto fluida e riporta alla memoria la situazione di alcuni dei Paesi che qualche anno fa vissero le cosiddette “primavere arabe”. I manifestanti chiedono l’uscita di scena di Bouteflika, una svolta democratica, lavoro e migliori condizioni economiche ma mancano gruppi e movimenti organizzati e soprattutto leader in grado di convogliare questo malcontento. In Egitto, nel 2011, accadde una cosa molto simile. Le migliaia di giovani scesi in piazza non trovarono una vera forza politica capace di rappresentarli alle elezioni e le conseguenze sono oramai ben note. Al contempo anche all’interno dell’entourage del presidente regna una certa confusione. Al momento, infatti, non esiste una figura in grado di porsi quale possibile leader di una transizione democratica nel Paese. Il presidente nel corso della sua lunga “legislatura” ha riordinato i servizi segreti e ha depotenziato l’esercito. L’unica figura di rilievo è il generale Salah che, di fatto, controlla le forze armate ma pare essere in rotta con le sorelle del vecchio leader, entrambe consigliere di Stato. Oltre a ciò, a causa delle restrizioni del regime di Bouteflika, non esistono partiti forti, né leader riconosciuti né un sostrato politico in grado di offrire un’alternativa capace di cooptare almeno una parte del consenso popolare. Anche per questo al momento si è evitato il cosiddetto “golpe medicale” (come accadde in Tunisia nel 1987) definito nell’articolo 102 della Costituzione algerina che prevede il riconoscimento da parte dello Stato dell’impedimento del presidente della Repubblica a svolgere le sue funzioni. Questa impasse è la più grande incognita per il futuro del paese. Se il vecchio leader dovesse vincere le elezioni per assenza di alternative le proteste potrebbero acuirsi e divenire sanguinose. Viceversa l’assenza di una chiara leadership potrebbe condurre il paese in un caos ancora maggiore.
Il ruolo dell’esercito
In questo contesto in evoluzione potrebbero esserci “frizioni” da parte di alcuni generali esautorati o esponenti della sicurezza e dell’intelligence rimossi dall’incarico. Qualche tempo fa, infatti, il Dipartimento dell’Intelligence e della Sicurezza (Drs), che negli ultimi 25 anni ha permeato tutti i settori della società, della politica e della difesa, è stato sostituito dalla Direzione degli Affari per la Sicurezza. Una “manovra” di facciata funzionale a liquidare alcuni personaggi scomodi come il Generale Mohammed Mediène ed a rendere gli apparati di sicurezza ancor più dipendenti dall’entourage del presidente. Tra i fedelissimi del presidente spicca il capo di stato maggiore e viceministro della Difesa Ahmed Gaid Salah, considerato l’uomo forte dell’esercito e fedele al presidente che per ora si è limitato ad avvertire i manifestanti sulla possibilità di esporre l’Algeria a minacce dalle “ricadute imprevedibili”, con riferimento alla guerra civile degli anni Novanta che ha causato migliaia di vittime. Non ci sono al momento elementi che potrebbero farci propendere per un golpe da parte di alcuni membri dell’esercito.
I rischi per l’Italia
Se l’Algeria dovesse cadere nel caos l’Italia sarebbe tra le prime vittime. Il nostro approvvigionamento energetico, in particolare di gas naturale, dipende per il 36% dall’Algeria. Eni ha numerosi investimenti nel Paese. Solo per fare un esempio lo scorso ottobre ha siglato con Total e Sonatrach (la compagnia di Stato algerina) una partnership esclusiva per l’esplorazione dell’offshore algerino. Inoltre, nel 2018, l’interscambio tra i due Paesi è stato pari a 9 miliardi di dollari e ci sono quasi 200 aziende italiane in Algeria. E’ evidente che, nonostante la solidità dell’Eni, una possibile instabilità nel nostro “vicino di casa” potrebbe avere effetti nel settore energetico e, più in generale in molti altri comparti economici. La Libia ce lo ha ben insegnato. Ci sono poi altri problemi, ad iniziare dalla questione sicurezza. L’Algeria, per la sua posizione geografica e la ricchezza del sottosuolo, potrebbe essere il territorio ideale per i miliziani dello Stato islamico, in fuga dai teatri operativi levantini. Già nel 2015 l’Interpol aveva trasmesso alle autorità locali una lista di 1.500 terroristi che cercavano di eludere il sistema di controllo delle frontiere con il semplice utilizzo di passaporti falsi. Inoltre, con le coste libiche più controllate, i trafficanti stanno cercando nuovi lidi da dove far partire i propri barconi e il Paese nordafricano potrebbe rappresentare un possibile crocevia per i flussi migratori dagli Stati dell’Africa centrale verso il Mediterraneo. Non è un caso se nell’ultimo anno sono aumentati gli sbarchi di migranti partiti dalle coste algerine. Nel 2017, sarebbero giunte in Sardegna oltre 1.800 persone provenienti dall’Algeria, nel 2016 erano state poco più di 600. Sovente si tratta dei cosiddetti “sbarchi fantasma”: traversate rapide su mezzi veloci e sicuri che riescono a raggiungere in poche ore le coste italiane, sfuggendo ai radar. Manna dal cielo anche per possibili infiltrazioni di terroristi.