PAGINE
Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Mario Mulé*
A metà degli anni Trenta del Novecento Walter Hess, il fisiologo svizzero che nel 1949 vinse il Nobel per la medicina, studiando il funzionamento cerebrale di un gatto, osservò che la stimolazione con un elettrodo di un’area specifica del cervello provocava una intensa reazione di collera. Molte discussioni vennero provocate da questa ricerca, a partire dal dibattito tra due diverse “posizioni”: si trattava di “vera” rabbia o, come sostenevano i comportamentisti dominanti nel panorama scientifico di quel periodo, di “finta” rabbia ?
Oggi quasi nessuno dubita che gli animali sentano emozioni che li guidano nell’apprendimento e nel comportamento. Ma già allora era abbastanza conosciuta la somiglianza, sia anatomica che funzionale, tra tutti i cervelli dei mammiferi: sembrava quindi che si potesse cominciare a capire l’origine dell’aggressività, negli animali e nell’uomo. Per questa ragione la scoperta valse ad Hess il Nobel.
Oggi viene dato un valore limitato a tale scoperta: anzitutto perché si è capito che strutture, circuiti e meccanismi cerebrali coinvolti nell’emozione chiamata ‘collera’ sono molto più complesse; poi perché non sembra che possa fornire un’adeguata comprensione dell’aggressività nell’uomo e meno ancora della guerra. E’ lo stesso Panksepp, fondatore delle neuroscienze affettive, che ci ammonisce: “poco di quello che possiamo dire (della collera) può illuminare le cause della guerra nella specie umana” (Panksepp J.- Biven L., Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014).
Altri studiosi, ispirati dalla teoria dell’evoluzione, hanno rivolto la loro attenzione agli scimpanzé con i quali condividiamo quasi tutto il nostro patrimonio genetico. Hanno argomentato che obbligatoriamente troviamo nell’uomo aggressività e violenza, vista la nostra discendenza da tali animali, notoriamente rissosi e violenti. Tuttavia un’analisi più attenta mette in dubbio questa convinzione, perché non è dimostrata la nostra discendenza dagli scimpanzè. I nostri antenati potrebbero essere stati i bonobo, molto più pacifici, e forse non conosciamo ancora quale specie ci ha preceduto (il famoso “anello mancante” di cui siamo ancora alla ricerca).
La convinzione di una nostra discendenza da animali violenti è stata sostenuta da autorevoli pensatori, tra i quali Freud cui si deve l’idea di “un’orda primitiva” precedente la civilizzazione umana. Tale ipotesi finora non ha trovato nessuna conferma dalle ricerche archeologiche, anzi mancano del tutto prove che confermino l’esistenza delle guerre prima di dodicimila anni fa, epoca della rivoluzione agricola. E c’è anche chi sostiene che nella preistoria umana sia stata presente una società matriarcale, più amorevole e prosociale.
C’è anche un’altra ipotesi, anch’essa di derivazione darwiniana, che prende in esame l’istinto predatorio, presente in molti animali, che avremmo ereditato. Gli studi scientifici, in realtà, ci dicono che l’istinto predatorio è molto diverso dalla violenza e dall’aggressività. Un esempio può chiarire queste differenze: un gatto arrabbiato avrà il corpo inarcato, il pelo irto, per apparire più grande, le unghie fuori dalle zampe, emetterà messaggi minacciosi; al contrario, un gatto che caccia una preda sarà cauto, silenzioso, attento, si acquatterà per rendersi meno visibile dalla preda.
C’è un altro “istinto primitivo” da esaminare come fattore importante del comportamento violento, l’istinto di potenza. Esso ha ricevuto molti consensi, provenienti da ambiti diversi. Dall’ottica della psicologia comparativa è stato detto, senza mezzi termini: “E’ inutile nascondere questa realtà: siamo una specie gerarchica”
Kissinger (vissuto per molti anni vicino ai potenti) affermava che “ per i maschi il potere è il sommo afrodisiaco”. Anche in ambito psicologico e clinico si ipotizza un sistema motivazionale finalizzato a definire il rango, cioè la posizione gerarchica nel gruppo di appartenenza ( Liotti G. – Monticelli F. I sistemi motivazionali nel dialogo clinico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008).
La condizione gerarchica, (che implica l’esistenza di capi) merita uno studio attento, ma ha visto finora prevalere le riflessioni in ambito filosofico ( Hobbes, Nietzsche, Macchiavelli). Seneca ha detto: “I potenti della Terra esercitano l’ira come una specie di regale insegna”. Pochi sono gli studi sui capi. In ambito biologico è stato trovato che negli animali in posizione alfa si trovano alti livelli di cortisolo, che favorisce una iperattivazione dei sistemi di allarme, dannosa per la salute del corpo e della mente.
In ambito psicologico pochi hanno provato a riflettere sulla personalità dei capi. Uno di questi è stato Fromm, che ha dedicato in un suo libro un intero capitolo allo studio della personalità di Hitler (Si tratta del cap. XIII di Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1978). Visto che sono i capi che decidono di muovere gli eserciti e le armi, potrebbe essere molto utile saperne di più su di loro.
C’è ancora almeno un altro aspetto emotivo da considerare ed è l’odio per il nemico, quasi necessario nelle guerre. Cosa possiamo dire dell’odio? Si pensa che sia un modo di sentire specificamente umano, frutto avvelenato di alcune funzioni evolute, come la capacità di immaginare, di pianificare progetti, compresi quelli di aggressione e di vendetta.
Proviamo adesso a sintetizzare le annotazioni fatte finora: esserci rivolti all’archeologia della mente ci ha consentito di acquisire alcune nozioni utili, ma non di capire l’origine della guerra. Per questa via, simile a quella seguita da Freud nella risposta ad Einstein che si interrogava sul perché della guerra, non si arriva molto lontano. Nella sua risposta Freud, alla fine delle sue riflessioni ( non certo banali), diceva: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa” (Perché la guerra? Carteggio tra A. Einstein e S. Freud in Freud S., Opere, Boringhieri, Torino 1979).
Quando non riusciamo a capire e a risolvere un problema, se siamo capaci di non deprimerci, possiamo pensare ad altri percorsi possibili.
L’avere indagato sulla violenza e su altri aspetti emotivi ad essa collegati ci ha impedito di osservare un campo più ampio? Ci ha impedito, per esempio, di considerare i processi di pacificazione e riconciliazione, così necessari in tutte le specie sociali? Possiamo ricordarci di ciò che dice Terenzio dell’uomo: “Homo sum. Humani nihil a me alienum puto”. Lo stesso Freud, che considerava essenziale per spiegare la guerra l’istinto di morte, quasi per inciso accenna alla rosa dei moventi ( in analogia con le 32 componenti della rosa dei venti). Possiamo guardare alla nostra natura servendoci di una metafora: dentro ognuno di noi vi sono molti semi diversi (diverse potenzialità): cresceranno e daranno frutti quei semi che saranno stati innaffiati e coltivati.
Ma è ora di dare parola a ciò che proviene dalle conoscenze neuroscientifiche: “il cervello è come un muscolo. Se sarà esercitato diverrà più robusto e potente”. Oggi sappiamo che “ neuroni che sparano assieme si aggregano assieme”[2]. Con l’esercizio (la pratica) vengono sintetizzate nuove proteine, si creano nuove connessioni sinaptiche e si rafforzano precedenti connessioni. Viene stimolata la produzione di mielina che, isolando come una guaina gli assoni, ne aumenta la velocità di conduzione fino a cento volte. Addirittura è possibile la produzione di nuove cellule nervose (neurogenesi) a partire dalle cellule staminali.
Ma c’è un altro aspetto molto importante: la mente può dirigere il cervello, può plasmarlo e dargli una sua forma. Fa questo attraverso il direzionamento e la focalizzazione dell’attenzione e la ripetizione (la pratica).
C’è un altro dato, che sembra di notevole importanza: alla nascita il cervello umano è ancora immaturo, non si è ancora pienamente sviluppato. Sono presenti ed attive le parti filogeneticamente più antiche, mentre la corteccia cerebrale è ancora priva di connessioni. Ma è proprio questa immaturità che rende possibile l’apertura all’esperienza e l’assimilazione della cultura. Oltre la genetica, dunque, entra in gioco l’epigenesi, cioè lo sviluppo di strutture e funzioni promosse dall’esperienza. Sappiamo anche che la cultura e l’esperienza incidono in modo molto più intenso nei primi anni di vita. E’ evidente l’importanza che possano avere nell’uomo le relazioni precoci e quanto valore dovremmo dare all’educazione sia intellettiva che emotiva.
Alcune scoperte più recenti hanno poi riconosciuto la presenza di strutture nervose (il ramo ventrale del nervo vago) che, qualora attivate, producono benessere sia nel corpo che nella mente. Questa componente del sistema nervoso autonomo viene attivato dalle relazioni sicure, che noi possiamo registrare inconsapevolmente e a prescindere dalla comunicazione verbale ( Porges S. W. – Deb D., Le applicazioni cliniche della teoria polivagale, G.Fioriti Editore, Roma 2020).
Perché anche noi possediamo sistemi di comunicazione non verbale, così essenziali nella vita sociale degli animali, che utilizzano mimica, qualità della voce, posizione del corpo, etc.
Se attingiamo inoltre alle conoscenze sulla mente sviluppate dalla psicologia orientale (soprattutto il buddhismo) troviamo la seguente affermazione: ogni emozione distruttiva vede nella nostra mente un antidoto capace di neutralizzarla. Inoltre ci viene detto che, accogliendo le emozioni distruttive e guardandole dall’interno, esse progressivamente esauriscono la loro potenza, fino ad estinguersi (Dalai Lama-Daniel Goleman D., Emozioni distruttive, Mondadori, Milano 2003).
Una buona notizia ci arriva anche da un orientamento della psicoterapia chiamato cognitivo-evoluzionista. Secondo questo modello, se riusciamo – non solo nel contesto terapeutico – a rimanere dentro una modalità cooperativa (comparsa piuttosto tardi nella storia umana e quindi ancora piuttosto debole), possiamo vivere le nostre relazioni in maniera più sana ed equilibrata e sapremo anche guardare la realtà in modo più realistico.
Entro certi limiti possiamo contare anche sulle nostre funzioni superiori di tipo razionale per modulare le emozioni, comprese quelle distruttive. A questa possibilità mi sembra faccia ricorso Andrea Cozzo che, da molti anni impegnato sul fronte della nonviolenza, ci ammonisce però sulle difficoltà che incontriamo se vogliamo praticarla, riportando in un suo libro un brano di Aldo Capitini: “La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per meglio dire, lotta; una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente” (Aldo Capitini cit. in Cozzo A. La nonviolenza oltre i pregiudizi. Ciò che bisogna sapere prima di condividerla o rifiutarla, Di Girolamo, Trapani 2022).
Proviamo a tirare le fila. Se siamo ancora lontani dalla capacità di capire perché nel mondo continua ad essere presente la mala pianta della guerra, possiamo tuttavia intravedere delle possibilità capaci di contrastarla. Possibilità che sono anche responsabilità: la responsabilità addirittura di garantire alla nostra specie la propria sopravvivenza.
La sapienza ebraica incoraggiava a credere ai “tempi messianici”, in cui la violenza umana sarà stata sconfitta e il lupo e l’agnello dormiranno l’uno accanto all’altro. Ma diceva anche che bisognava agire come se i tempi messianici, anziché lontani, fossero già arrivati. Come ogni utopia, ci indicava una meta verso cui tendere, per quanto ancora lontana. Mi sembra che questo insegnamento sia valido anche oggi, un oggi dominato dalla paura e dall’inquietudine e senza la certezza di essere capaci di raggiungere la pace e la convivenza nel mondo.
*Mario Mulè Psichiatra e psicoterapeuta, già Direttore dell’Istituto psichiatrico di Palermo
Facebook Comments