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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
Aveva previsto tante cose, Pier Paolo Pasolini: l’eclissi della civiltà rurale, l’omologazione culturale degli italiani, il loro incattivirsi.
E in qualche modo aveva pure presagito la sua morte, o comunque ne aveva avvertito il pericolo nel mutamento di pelle di quei ragazzi di vita – non più indifferenti ai luccichii della società dei consumi – con i quali s’incontrava la notte.
Ma non avrebbe mai potuto prevedere che, nel centenario della sua nascita, quel Paese di cui aveva denunciato infamie e storture lo avrebbe osannato. Non solo la stampa e gli altri media hanno abbondato e abbondano in edulcorate rievocazioni, ma perfino il Senato della Repubblica lo ha celebrato in una seduta a lui dedicata.
In questo clima di ipocrita venerazione di un uomo, un intellettuale, un poeta e un cineasta che a tutto aspirava tranne che a essere venerato e che anzi faceva e diceva di tutto per non essere amato, la sola nota non dissonante, l’unica rivelatrice del buffo paradosso, è stata la gaffe di chi, ai vertici delle istituzioni, ne ha storpiato il nome. A ben pensarci, infatti, seppur involontario, quello della Presidente del Senato è stato un autentico lapsus freudiano: dietro quel Gianpaolo si cela la deformazione della sua identità, l’estraneità ai suoi messaggi in chi oggi ne ha tessuto e ne tesse sperticatamente le lodi.
Di Pasolini in questi giorni si è detto e si è scritto di tutto. Che era un grande poeta, un regista formidabile, un opinion leader e tanto altro. La sua avversione al potere, i suoi strali contro chi lo deteneva però sono passati sotto traccia. La sua vita spericolata di omosessuale dichiarato che dovette subire più di un processo per adescamento di minori – per i quali non risulta abbia subito condanne penali di rilievo ma l’espulsione del Pci e qualche grana nell’insegnamento – è stata ricordata sì ma come spia di un maledettismo che ai poeti si perdona. Non gli era perdonato tuttavia in vita e anzi era un’infamia. Gli intellettuali e i critici letterari e di cinema hanno fatto a gara a incensarlo, eppure non era così da vivo: mica piaceva a tutti. Né – a essere onesti e oggettivi – tutto d’altra della sua variegata e molteplice produzione è esente da rilievi estetici.
Si è santificato chi santo non era, si è esaltato ciò che cinquanta anni fa era motivo di scandalo. Lecito chiedersi: è cambiata l’Italia? I palazzi di quell’Italia che Pasolini condannava sono stati rasi al suolo e al loro posto sono sorti nuovi edifici con pareti di vetro, belli e trasparenti?
No, le cose non sono cambiate, e di sicuro non sono cambiate in meglio, soprattutto se le si guarda con gli “occhiali” di Pasolini. Non solo la cultura contadina giace estinta e sepolta, ma i proletari – che lui comunque amava poco – non esistono più, mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre di più e il processo di omologazione culturale si è perfezionato come neanche lui avrebbe immaginato. Oggi gli operai, o comunque gran parte di essi, votano a destra e non sanno nemmeno a che cosa corrisponda l’espressione coscienza di classe.
E’ un mondo tutto nuovo anche per effetto dei social, quello di oggi, ancora più irreggimentato rispetto al passato. Un mondo che fagocita tutto e tutto addomestica. Anche la voce e gli scritti di un intellettuale che aveva fatto dello scandalo e dell’essere contro la sua bandiera.
Non ci resta che attendere le magliette col suo volto indossato dai “figli di papà” che detestava anche quando si battevano per qualcosa non del tutto sbagliato.