Dal generale agosto all’autunno caldo, fino al carnevale dell’anno prossimo, sarà lungo e travagliato il tormentone della Premiership che ha già iniziato ad intersecare la politica italiana.

Ma se per il centrodestra l’investitura di Giorgia Meloni appare ormai incardinata per effetto della lievitazione elettorale di Fratelli d’Italia e del tramonto di Berlusconi e Salvini, per il vasto fronte progressista, visti i risultati, non è incoraggiante il precedente tedesco della Kanzler syndrom per la successione ad Angela Merkel. O meglio, per il centro sinistra capovolge la prospettiva del candidato per Palazzo Chigi. Nel senso che non c’è bisogno di andare alla ricerca di un nuovo Premier visto che già c’é…
Fino adesso nell’arcipelago del Nazareno e del vulcano centrista di Calenda, Sala, Renzi, Toti, Di Maio e Forza Italia, latitudine Brunetta, Carfagna e Gelmini, la premiership è stata una sorta di tabù. Il confronto focalizza le alleanze, ma mai l’identikit di riferimento. Confidando sull’inerzia dell’esempio inglese del leader di partito candidato Premier, Enrico Letta ha glissato il tema mentre il puzzle centrista non ha voce in capitolo e soprattutto non ha nomi condivisi.

Da Max Weber a Karl Popper, la personalizzazione della leadership e l’evoluzione dei partiti lascia intravedere nel campo largo idealmente delineato da Letta più antagonismi che condivisioni.
A meno che, ed è questa l’illuminazione che si sta facendo strada nei palazzi delle istituzioni e negli ambienti parlamentari, l’intero fronte del centrosinistra unanimemente non chieda Mario Draghi di candidarsi in prima persona come bussola dell’Italia progressista.
