La vicenda storica di don Pino Puglisi é stata raccontata ormai molte volte, anche al cinema. Ovviamente con risultati non sempre ottimali: il pur bravo Luca Zingaretti, ad esempio, nel film Alla luce del sole di Roberto Faenza, ha una propensione al cipiglio che non ricordo di aver mai notato sul volto del parroco palermitano.
Può riuscire interessante mettere a fuoco, invece, alcuni significati di questa vicenda.
Il primo, di carattere sociologico, presenta una portata generale: la co-responsabilità dei “buoni” nell’assassinio di una vittima.
Se la stragrande maggioranza dei medici firma certificati falsi per scongiurare la detenzione di un boss, quando un medico si rifiuta va punito.
Se la stragrande maggioranza degli imprenditori paga il pizzo, quando un imprenditore si rifiuta va punito.
E così via per tante altre categorie professionali. Il clero cattolico non fa eccezione: se la stragrande maggioranza dei preti non trova nulla da obiettare al dominio territoriale dei mafiosi (e dei loro referenti politici), quando un prete rifiuta la collusione (o almeno il silenzio complice) va punito.
Se non si riflette su queste dinamiche non si può capire davvero l’allarme di Martin Luther King sull’indifferenza degli indifferenti, a suo parere più pericolosa della violenza dei violenti.
Né si può capire perché ogni retorica esaltatrice di un martirio (religioso o civile) é del tutto fuori luogo: le vicende di Josef Mayr-Nusser e di Franz Jägerstätter sono un eloquente atto di accusa verso i loro contemporanei che accettarono supinamente l’arruolamento nell’esercito nazista.
Almeno un secondo significato – questa volta di carattere teologico – può rinvenirsi nella storia di don Puglisi.
Sino a mezzo secolo fa esistevano gli atei militanti e gli anticlericali arrabbiati: oggi il cristianesimo, in Occidente, é talmente irrilevante da non essere neppure bersaglio polemico.
Quale cristianesimo? Mi pare di poter rispondere: il cristianesimo come dottrina (da credere) e come liturgia (da celebrare).
Nei confronti di questo cristianesimo come ortodossia dogmatica nessuno ha obiezioni: né i mafiosi, né i fascisti, né i leghisti.
Ma quando il cristianesimo si profila nel suo volto originario di vangelo della liberazione, della giustizia e della solidarietà – in una parola: come ortoprassi – smette di essere digeribile. Diventa divisivo.
Se don Puglisi fosse stato un “funzionario” del sacro, chiuso nell’ambito strettamente parrocchiale, i mafiosi non l’avrebbero certo ucciso.
Ciò che lo ha reso insopportabile é stato il suo voler intrecciare strettamente l’evangelizzazione con la promozione umana; il suo mettersi a fianco dei cittadini che non volevano più la colonizzazione mafiosa del territorio; il suo ribellarsi all’affarismo e al clientelismo dei politici legati a doppio filo con le cosche.
Il suo martirio può indicare a tutta la cristianità un sentiero per sopravvivere al lento naufragio del cristianesimo dei catechismi e delle viae crucis: testimoniare che il discorso delle “beatitudini” (incentrato sul primato della sobrietà, della condivisione dei beni, della mitezza, della lotta alle ingiustizie…) non è il sogno di un visionario, quanto un programma rivoluzionario più radicale e lungimirante di tanti altri programmi consimili.
Un progetto, comunque, che non pretende di essere esclusivo né ancor meno escludente, ma solo un apporto al faticoso processo evolutivo dell’intera popolazione del pianeta. Proprio quando l’orizzonte si fa più scuro e minaccioso può soccorrerci la convinzione del piccolo prete siciliano: “Se ognuno di noi fa qualcosa, insieme possiamo fare molto”.