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Rubrica di critica recensioni e anticipazioni
by Augusto Cavadi
Se qualche adulto prova ancora piacere a leggere l’Iliade o l’Orlando furioso è perché, sin da ragazzo, queste opere gli sono state presentate come poemi, creazioni di fantasia pregne di significati morali e di insegnamenti esistenziali.
La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento o, come si preferisce dire per rispetto verso gli Ebrei, Primo e Secondo Testamento – non ha avuto la stessa sorte.
Indubbiamente chi l’ha redatta, mettendo per iscritto secolari tradizioni orali, non intendeva fare opera di storia né di scienze naturali, quanto esprimere – attraverso miti, poemi, leggende, fiabe, epopee, omelie – alcune convinzioni di fede del suo popolo.
Ma quando la Bibbia è uscita dall’alveo medio-orientale – ed è stata ascoltata, letta, tradotta dai “Gentili”, da Greci e Latini – il registro linguistico originario è stato inesorabilmente frainteso: Adamo, Eva, Abramo, Mosé…non più figure simboliche, ma personaggi storici dalla fisionomia e dalle vicende francamente inverosimili.
Da un secolo a oggi la teologia sta cercando di uscire dall’equivoco bimillenario, da un “letteralismo” imbarazzante che costringe i nostri contemporanei mediamente istruiti a una scelta dolorosa: o credere (rinunziando a ciò che le scienze umane e naturali, oltre che la logica, insegnano) o gettare alle ortiche la Bibbia (salvando la propria integrità intellettuale).
Certo, de-mitizzare il Primo Testamento è stato relativamente facile; non altrettanto agevole l’operazione per il Secondo Testamento. Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con notevole coraggio (ha dovuto sopportare non solo reazioni accademiche ed ecclesiastiche, ma perfino aggressioni fisiche), si è impegnato su questa strada, pubblicando – accanto ad altri titoli interessanti – Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo, ed. it. a cura di don Ferdinando Sudati, Massari, Bolsena (Vt) 2018 (ed. or. 2016), pp. 398, euro 20,00.
Spong non nega certo che il germe dei Vangeli sia stata un’esperienza storica, solo ne circoscrive attentamente i contorni: nel primo secolo della nostra era alcuni ebrei furono affascinati dalla personalità e dal messaggio di un maestro nomade, Jeshua di Nazareth, e per qualche anno si misero al suo seguito.
Le autorità religiose ebraiche lo percepirono però come un pericoloso sovversivo dell’ordine (teologico-morale-politico-sociale) costituito e lo fecero condannare a morte dall’autorità romana occupante la Palestina. I discepoli caddero in un profondo sconforto ma le esperienze mistiche attestate da alcuni di loro li convinsero che il maestro non era precipitato nel nulla della morte, che al contrario era stato accolto e reso immortale dall’abbraccio del Dio vivente.
Pochi decenni dopo la crocifissione (51- 64) è Paolo, con le sue lettere, a formulare e diffondere la fede in Gesù; poco dopo è Marco (intorno al 72) che riprende la predicazione paolina e la struttura in un racconto più ampio e articolato: il primo dei quattro vangeli ritenuti, nel IV secolo, gli unici “canonici”. Ancora poco dopo un decennio (intorno all’84) Matteo riprende, a sua volta, il testo di Marco e lo amplifica, arricchendolo di dettagli: secondo quale criterio?
Spong, sulla scia del biblista Michael Douglas Goulder (1927 – 2010), sostiene che i capitoli del vangelo secondo Matteo seguono molto fedelmente la scansione della liturgia in vigore nelle sinagoghe.
Da ebreo che si rivolge ad ebrei, sa che la sua ricostruzione teologico-liturgica non sarà presa alla lettera, avendo come scopo esplicito non tanto rendicontare storicamente la vita di Gesù (che egli, personalmente, potrebbe non aver neppure conosciuto), quanto attestare la fede della sua comunità.
Essa si è infatti convinta che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d. C., la “gloria” di Dio, la “presenza” di Jahvé, risplenda nella persona del Nazareno, visto come il nuovo Mosé.
Matteo esprime questa fede costruendo un racconto che ripercorre, tappa dopo tappa, la vicenda di Mosé: bambino salvato dall’eccidio dei neonati ebrei, fuggito in Egitto, rimasto quaranta anni (che diventano giorni) nel deserto, promulgatore sul monte della Legge (che diventa la nuova Legge, il “discorso della montagna”)…
La tesi di Spong è di una semplicità disarmante (anche se, alle orecchie dei lettori ingenui, risulta allarmante): non sono le ‘profezie’ veterotestamentarie ad essere puntualmente avveratesi in Gesù, ma è la vicenda di Gesù che è stata costruita letterariamente sulla base delle ‘profezie’ veterotestamentarie.
Se è così, l’autore invita a non cercare in questo vangelo (come in nessun’altra pagina biblica) una veridicità storica, quanto ad accoglierne – se lo si vuole accogliere – il significato intenzionato da Matteo stesso: che in Gesù il messaggio biblico tracima rispetto alle barriere etniche di un popolo autoproclamatosi eletto e si rivolge all’umanità intera. “Andate in tutte le nazioni, dice il Cristo risorto.” – e qui non si pensa certo alla rianimazione miracolosa di un cadavere, quanto a una dimensione inedita e incomparabile in cui Gesù, “primogenito di molti fratelli”, è entrato dopo la crocifissione – “Andate da coloro che avete definito oltre i confini dell’amore di Dio. Andate da coloro che avete deciso che sono reietti. Andate da coloro che avete giudicato inadeguati. Andate dai non circoncisi, dagli impuri, dai perduti, dai non battezzati e dai diversi. Andate oltre il livello delle vostre esigenze di sicurezza. Andate da coloro che vi minacciano. […] Proclamate loro la buona notizia dell’amore infinito di Dio, un amore che ci abbraccia tutti. Con il potere di questa esperienza, permettete alle vostre paure di dissolversi; e insieme a quelle paure scomparse, dite addio anche alle vostre insicurezze, ai vostri pregiudizi, ai vostri confini. Nella comunità umana c’è posto per tutti. Imparate a mettere in pratica questa verità. Non ci sono emarginati per l’amore di Dio. Questo è ciò che il grande Mandato significa”.
Un annunzio che, per essere credibile, deve intrecciare parole e gesti, teorie e opere: le comunità cristiane o diventano segni efficaci dell’amore invisibile del Padre (impegnandosi a dare la vista ai ciechi, il pane agli affamati, la libertà agli oppressi) o non hanno né senso né valore.