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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Per Jean-Paul Sartre l’essere umano è tale in quanto titolare di una libertà assoluta, totale. Ma – come abbiamo visto in un intervento precedente (https://www.zerozeronews.it/sartre-e-il-punto-di-partenza-e-darrivo-di-dio/) – a suo avviso, se esistesse un Dio come lo propongono i tre grandi monoteismi mediterranei, l’uomo non sarebbe davvero libero. Anzi, addirittura, sarebbe “nulla”: « Se Dio esiste, l’uomo è nulla; se l’uomo esiste… » (Il diavolo e il buon Dio). Se vuole pensarsi come radicalmente libero, deve ‘postulare’ che Dio non c’è. Vivere come se Dio non ci fosse. L’ateismo è l’unica ipotesi che possa spiegare il desiderio umano di essere incondizionatamente liberi.
Ma questo ateismo ha un suo prezzo notevole. Infatti, eliminata l’ipotesi di un Dio cui attribuire il senso dell’universo, tale universo risulta senza fondamento e senza scopo. In una parola-chiave del vocabolario sartriano: assurdo. Secondo Sartre, la realtà, considerata nella sua globalità e senza veli pietosi, si rivela per ciò che è davvero: «ignobile marmellata», «larva strisciante», «porcheria appiccicosa» (La nausea). Ogni essere – non solo questo o quell’essere particolarmente insignificante – «nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (ivi).
Il filosofo francese Claude Tresmontant, impressionato come me dalla logica stringente dell’argomentazione sartriana, si chiede però se essa non costituisca – del tutto involontariamente – una “sesta” prova dell’esistenza di Dio (“sesta” rispetto alle celebri “cinque” vie di san Tommaso d’Aquino). Infatti: per Sartre è intuitivamente evidente che ogni cosa nell’universo, e l’universo nel suo insieme, esistono, ma non hanno in sé la ragione del proprio esistere (potrebbero benissimo non essere mai esistiti o cessare per sempre di esistere). In termini tecnici, si dice che sono contingenti : esistenti di fatto, ma non di diritto. Il mondo è dunque un quid di infondato, di superfluo, “di troppo” (La nausea). Se però capovolgiamo la prospettiva, partendo dal dato di fatto che il mondo – pur nella sua contingenza – c’è, ha una logica interna, un suo senso e una sua preziosità, perché non ipotizzare che abbia una ragion d’essere in qualcosa o qualcuno di necessario, di assoluto, di fondante (che nel linguaggio religioso si chiama Dio)? Perché non riconoscere che il mondo ha una propria verità e una propria consistenza e, su questa base incontrovertibile, non ipotizzare che esso riceva come dono continuo ciò che non possiede come proprietà intrinseca? Insomma: se – come ritiene Sartre – il mondo è inspiegabile in uno scenario ateo, perché non ipotizzare uno scenario teistico che ne renda intelligibile l’esistenza (per altro evidente)?
L’ipotesi di un Principio divino è stata storicamente imbrattata da vari equivoci ad opera di molti dei suoi stessi sostenitori. Infatti il teismo più diffuso in Occidente ha rappresentato Dio come trascendente e personale. Esso va corretto in ciascuno di questi due aspetti. Infatti Dio non è trascendente se non in quanto anche immanente: come scriveva Joseph De Finance, dobbiamo trascendere la nostra idea di trascendenza per intravedere la trascendenza divina (che, potremmo specificare, non è distanza dell’Alto dal basso, bensì presenza del Profondo nel basso). Non è personale nell’accezione antropomorfica abituale: “Un’opera d’arte ha un autore, e tuttavia, se essa è perfetta, possiede qualcosa di essenzialmente anonimo. Essa imita l’anonimato dell’arte divina. Così la bellezza del mondo dà la prova di un Dio al contempo personale e impersonale, e né l’uno né l’altro” (Simone Weil).
Tutto scorrerebbe abbastanza liscio se non esistesse il mare infinito di sofferenze che il divenire dell’universo comporta inesorabilmente. E’ questo dolore innocente e pervasivo che costituisce, a mio avviso, la costante spina nel fianco di ogni teismo (specie se al Principio divino si attribuiscano qualità come quali l’onnipotenza e la benevolenza). Unde malum, da dove il male? Una filosofia o una teologia che evitassero questo interrogativo si condannerebbero da sole all’irrilevanza. Sartre sembra azzerarlo alla radice: se tutto è ontologicamente assurdo, perché stupirsi del male? Ma, con questo colpo di spugna, egli azzera anche l’interrogativo corrispondente: unde bonum, da dove il bene? L’ipotesi teistica, in imbarazzo davanti al malum, almeno spiega il bonum che si dispiega nell’universo (e magari, puntando sul bene evidente, può legittimare la speranza che in esso si possa, in qualche maniera, risolvere il male altrettanto evidente).
Francamente non mi sembra , invece, un gran guadagno teoretico la mossa sartriana di duplicare un enigma solo perché non lo si riesce a decifrare.
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Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo