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L’effetto dirompente dei pentiti creduti e di quelli spacciati per pazzi

by Antonio Borgia

Giovanni Falcone sosteneva che, prima o poi, la mafia sarebbe scomparsa. In effetti, approfondendo la storia di queste organizzazioni, ci si rende conto che la loro sopravvivenza é dipesa solo dall’ignavia e dal permissivismo di chi avrebbe dovuto fermarle.

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Giovanni Falcone e Masino Buscetta

Prima di Tommaso Buscetta che, con le sue rivelazioni, travolse cosa nostra e permise la realizzazione dello storico maxiprocesso del 1986, vi sono stati altri affiliati che decisero, invano, di svelare a magistrati e investigatori i segreti della mafia.

Purtroppo, i tempi non erano maturi o, più semplicemente, seduti ad ascoltare o decidere non vi erano uomini con un alto senso dello Stato.

Tralasciando i tentativi del Questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, nel 1898, di colpire le cosche individuate grazie alle dichiarazioni del boss Francesco Siino, e del Prefetto Cesare Mori nei successivi anni ’20, tutti conclusisi senza risultati soddisfacenti, nel luglio 1937 vi fu la prima concreta occasione. Uno specialista di malattie infettive, Melchiorre Allegra, 55enne, ex ufficiale medico all’Ospedale Militare San Giacomo di Palermo, arrestato perché coinvolto nell’omicidio di tale Ponzo, decise di collaborare con l’Ispettorato Interprovinciale di Pubblica Sicurezza per la Sicilia, confessando di essere “uomo d’onore” dal 1917 nonché svelando struttura, nomi delle famiglie, rituali di affiliazione e codici interni di cosa nostra, anticipando quanto Buscetta avrebbe reso noto mezzo secolo dopo.

Le pagine del verbale di interrogatorio rimasero, però, dimenticate negli uffici della Procura di Trapani e ricomparvero solo nel gennaio 1962 quando il giornalista Mauro De Mauro (vittima della “lupara bianca” otto anni dopo), venutone in possesso, le pubblicò a puntate sul giornale palermitano “L’Ora”, dimostrando la sempre negata esistenza della mafia.L’effetto dirompente dei pentiti creduti e di quelli spacciati per pazzi

Alla fine degli anni ’50, tre abitanti di Corleone – Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva – affiliati o vicini alla cosca del medico Michele Navarra (ucciso da Luciano Liggio assieme a Totò Riina e Bernardo Provenzano, il 2 agosto 1958), iniziarono a fornire alla Polizia informazioni sull’attività criminale dei futuri capi di cosa nostra ma, nel corso del processo di Bari del 1969, non sottoposti ad alcuna protezione, per paura decisero di fingersi pazzi e vennero dichiarati inattendibili dai giudici.

Nel luglio 1971, il palermitano Vincenzo La Cara, 42enne, appartenente alla cosca di Gerlando Alberti, arrestato per il sequestro del gestore del bar cittadino “Massimo” (mai più ritrovato perché sospettato di avere segnalato la presenza del boss), consegnò ai Carabinieri un corposo memoriale sulla storia di cosa nostra negli ultimi decenni. Anche lui, non creduto, venne giudicato insano di mente.  La sua testimonianza è stata ritrovata nel 1994 dal magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, che riaprì le indagini sulla morte del Presidente dell’Eni, Enrico Mattei, avvenuta il 27 ottobre 1962 nell’esplosione del suo bimotore nei cieli del pavese, verosimilmente sabotato a Catania prima della partenza.

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Leonardo Vitale

Il 29 marzo 1973, si ebbe il famoso pentimento di Leonardo Vitale, appartenente ad un’antica famiglia di mafia palermitana, che si recò spontaneamente in Questura per raccontare ciò che sapeva su cosa nostra, a seguito di una crisi mistica.

Divenuto “uomo d’onore” a vent’anni, dopo aver ucciso a colpi di lupara, nel 1958, il campiere Mannino quale prova di ammissione nella cosca, Vitale aveva giurato fedeltà all’organizzazione con le modalità poi descritte agli investigatori da tutti i collaboratori di giustizia, la puntura a un dito con una spina di arancio amaro, il santino bruciato e il bacio sulla bocca dei confratelli, in una cerimonia definita «il rito dei Beati Paoli».

Durante la confessione si autoaccusò di vari delitti e fece i nomi di molti e importanti mafiosi, fra i quali Totò Riina, Pippo Calò e Vito Ciancimino oltre a rivelare l’esistenza della Commissione di cosa nostra.

Vitale descrisse analiticamente la struttura e i capi emergenti ma non venne creduto.

Il processo che seguì alle sue dichiarazioni si concluse con l’assoluzione di tutti i 49 imputati. Gli unici condannati furono lo stesso Vitale (per i reati confessati) e suo zio Titta che lo aveva avviato agli omicidi.

Venne rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto perché dichiarato seminfermo di mente e affetto da schizofrenia, decisione ormai divenuta consueta e «soddisfacente» per i pentiti dell’organizzazione mafiosa.

Il 2 dicembre 1984, a 44 anni, rientrato a Palermo dopo essere stato rimesso in libertà, fu assassinato con due colpi di pistola alla testa, mentre tornava a casa, dalla messa assieme alla madre e alla sorella.

Buscetta, Contorno e altri pentiti, in seguito, confermarono la veridicità delle sue affermazioni.

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Giuseppe Di Cristina

Altra incredibile e gravissima vicenda é quella riguardante le rivelazioni del boss di Riesi, in provincia di Caltanissetta, Giuseppe Di Cristina, che volle incontrare, nell’aprile 1978, il Capitano Alfio Pettinato, Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Gela, perché dopo essere scampato ad un agguato ne temeva un secondo.

Di Cristina, infatti, membro della Commissione Regionale di Cosa Nostra, si era scontrato con altri boss a seguito dell’uccisione del Tenente Colonnello Giuseppe Russo, avvenuta a Ficuzza il 20 agosto 1977 senza il consenso della cupola mafiosa.

Le sue rivelazioni preannunciavano l’evasione dal carcere di Luciano Liggio e l’omicidio del Giudice Cesare Terranova; spiegavano i motivi dell’uccisione del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione; segnalavano la presenza di squadre di killers dei corleonesi, gli alleati più fidati di Liggio, lo spessore criminale di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i movimenti e gli interessi economici dei suoi avversari e soprattutto anticipavano la tragica strategia che i corleonesi avevano in mente.

Gli stessi Carabinieri, nel rapporto dell’agosto 1978 all’Autorità Giudiziaria, definirono le dichiarazioni del Di Cristina di «eccezionale valore probatorio», soprattutto perché descrivevano lo scontro in atto fra le due fazioni, fornendo molti riscontri a ciò che le indagini avevano solo ipotizzato.

Purtroppo, i magistrati ritennero inattendibile Di Cristina per la presuntuosa convinzione che un boss del suo spessore mai avrebbe potuto fornire indicazioni veritiere e non diedero seguito al rapporto.

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Riina e Provenzano

Il successivo 30 maggio 1978, a Palermo, un commando capeggiato dal cognato di Riina, Leoluca Bagarella, rimasto ferito nella sparatoria, lo uccise ad una fermata di autobus.

Ma il boss Di Cristina “parlò” anche da morto: nelle sue tasche, il Capo della Squadra Mobile Boris Giuliano (a sua volta assassinato nel luglio del 1979 da Bagarella) trovò alcuni assegni che permisero alla Polizia di risalire al traffico di droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti e ai rapporti col banchiere Michele Sindona.

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Boris Giuliano

In pratica, se le rivelazioni di Giuseppe Di Cristina avessero avuto seguito giudiziario e se la magistratura competente si fosse dimostrata meno indolente, la scalata al potere dei corleonesi avrebbe potuto essere interrotta, evitando migliaia di morti. Invece, la situazione precipitò e si arrivò allo sterminio delle cosche perdenti e a molti delitti eccellenti di magistrati, investigatori e rappresentanti delle istituzioni.

Quello che é accaduto in seguito é noto a tutti. Il pentimento di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno – grazie al giudice Giovanni Falcone -, il maxiprocesso del 1986, l’effetto domino che ha portato numerosi affiliati a “varcare il Rubicone” della collaborazione con la giustizia e a consegnarsi ai magistrati, anche per evitare l’ergastolo.

Poi, nel 1991, la legge 15 marzo, n. 82, ha previsto la figura del «collaboratore di giustizia», con una diminuzione della pena, un assegno di mantenimento concesso dallo Stato e un programma di protezione assicurato all’interessato e ai familiari da un apposito Servizio Centrale. La normativa ha determinato, nel tempo, una vera e propria fuga dalle varie mafie.L’effetto dirompente dei pentiti creduti e di quelli spacciati per pazzi

Naturalmente, ogni organizzazione ha compreso il grave pericolo e tentato di bloccare le devastanti diserzioni di tanti affiliati.

Vari i metodi attuati: le uccisioni dei familiari, i messaggi inviati dalle famiglie di sangue (soprattutto nell’ambito della ‘ndrangheta), il ricatto di non far vedere più i figli. In molti casi, sia per prevenire (vedi mogli di ‘ndranghetisti che volevano scappare con i figli) sia per confermare le ritrattazioni imposte, le cosche hanno scelto la strada della compiacente certificazione della pazzìa, divenuta ormai di moda per cercare di invalidare le confessioni verbalizzate.

Alla data dell’ottobre 2023, secondo i dati forniti dal Servizio Centrale di Protezione del Ministero dell’Interno, il numero dei collaboratori di giustizia delle mafie storiche e di quelle pugliesi ha raggiunto il numero di 780, tutti tutelati assieme ai familiari.

I pentiti hanno cambiato la storia giudiziaria italiana, consentendo di archiviare la stagione delle permanenti assoluzioni per insufficienza di prove. Quelli assurdamente ignorati, come Vitale e Di Cristina, avrebbero potuto impedire il tragico dilagare degli intrecci criminali.

Le vicende dei pentiti rimangono una sorta di sliding doors che hanno inciso profondamente sulla nostra società. Porte scorrevoli che, talvolta, sono  rimaste inspiegabilmente chiuse senza che, in seguito, si sia cercato di capirne i motivi.L’effetto dirompente dei pentiti creduti e di quelli spacciati per pazzi

 

 

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Antonio Borgia
Antonio Borgia
Generale in pensione della Guardia di Finanza, ha prestato servizio in Sicilia dal 1979 al 1996, nel pieno della guerra di mafia e delle stragi di cosa nostra. Ha collaborato con diversi magistrati a Trapani e Palermo quali Dino Petralia, Ottavio Sferlazza, Carlo Palermo ed i Pm della DDA di Palermo allora guidata dal Procuratore Giancarlo Caselli, in particolare Alfonso Sabella. Attualmente é editorialista della Gazzetta di Asti.
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