“Un politico di razza, per bene e gentile”: questo il commento istintivo ed unanime che di Roberto Maroni scomparso all’alba, a 67 anni, del quale si fanno interpreti non soltanto i compaesani del comune di Lozza, nel varesotto, ma l’intero popolo leghista.

Sognatore e musicista, con performance di rilievo nei festival soul con la sua band, “Distretto 51”, Roberto, Bobo Maroni ha impersonato l’anima pragmatica, efficientista e nazional popolare della Lega, fondata il 12 aprile del 1984 dal suo amico e socio di cooperativa Umberto Bossi.

Ancorato ai valori costituzionali, della legalità e della giustizia Maroni fu soprattutto un impeccabile titolare del Ministero dell’Interno, il primo non democristiano dal dopoguerra. Al Viminale per due volte conquistò, a detta di tutti, persino dello scrittore Roberto Saviano, la palma di miglior ministro dell’Interno di sempre. Un riconoscimento da statista, acquisito fin dalla sua prima dichiarazione da successore di una figura carismatica come quella di Paolo Emilio Taviani: “La Lega federalista, con un leghista al Viminale, diventa il garante dell’unità d’Italia”.
La parabola politica di Bobo Maroni contempla anche altre due tappe fondamentali, che nel momento della sua scomparsa assumono un rilievo politico e quasi presagiscono il futuro della Lega: dal luglio 2012 al 15 dicembre 2013 fu segretario della federale Lega e dal 2013 al 2018 Presidente della Regione Lombardia.

Esattamente lo snodo cruciale che si accinge ad affrontare la Lega di lotta e di Governo di Matteo Salvini, che dopo aver raggiunto l’apice del consenso del 34% alle europee del 2019 è precipitata all’8/8% delle politiche del 25 settembre.
Agli interrogativi che da più parti, dai Presidenti di regione Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, al Ministro Giancarlo Giorgetti, si nutrono sull’avvitamento della segreteria di Matteo Salvini, si aggiunge anche l’incertezza delle prospettive per le regionali lombarde della primavera del 2023.
