Libia ormai solo guerra e petrolio
Sangue, soldi e petrolio. Dilaniata dalla guerra civile del dopo Gheddafi, la Libia è un paese fantasma con una identità geografica che si regge esclusivamente sull’ologramma politico internazionale delle Nazioni Unite e soprattutto sui petrodollari.
Le notizie che rimbalzano dal Nord Africa riguardano quasi esclusivamente gli scontri armati fra le fazioni rivali e le tensioni che si susseguono a Tripoli per l’accaparramento dei proventi dell’estrazione del greggio. . “Come spesso in scenari del genere, sono i soldi ad alimentare le tensioni” conferma l’editorialista Mauro Indelicato esperto di strategie politiche e militari.
- In Libia è caos continuo. La conferenza di Palermo sembra non esserci mai stata. Perché?
La risposta va trovata nella natura stessa della conferenza, che ha rappresentato più un incontro di servizio che una riunione volta a definire le principali tematiche. Si sapeva dunque già alla vigilia che da Palermo non sarebbe uscita un’intesa in grado di cambiare, dal giorno dopo, la situazione in Libia. Il fatto che, a 24 ore dalla chiusura del summit, a Tripoli già si registravano scontri tra alcune fazioni ne è una testimonianza.
- Cosa può esserci dietro le tensioni e gli assalti a Tripoli?
Nessuno vuole rinunciare ad almeno una fetta della grande torta libica. E così nascono e si consolidano fazioni e gruppi che, dietro i proclami ufficiali in cui spesso si parla della necessità di liberare Tripoli da milizie rivali, provano in realtà ad entrare nella capitale per ritagliarsi spazio e potere e, di conseguenza, provare a mettere le mani su parte delle tante somme derivanti dai proventi del petrolio o da attività illecite. È, ad esempio, dei giorni scorsi la notizia della conferma di alti livelli di estrazione del greggio in Libia, giunti oramai quasi ai livelli ante guerra: è chiaro che, sapendo degli elevati introiti della Noc e della banca centrale in questi mesi, nessuno a Tripoli accetterà mai di essere definitivamente fuori dai giochi politici e militari della città.
- Quanto regge al Serraj?
Al Sarraj è un uomo di passaggio, non è un interlocutore a cui poter fare affidamento per il futuro della Libia. Lo stesso Haftar, quando a Palermo ha parlato di inopportunità di “cambiare il cavallo in corsa”, da un lato ha riconosciuto ad Al Sarraj il suo ruolo di attuale leader, ma dall’altro ha indicato la sua uscita di scena nei prossimi mesi dopo le elezioni. Per adesso c’è in ballo la riforma del consiglio presidenziale, che dovrebbe essere stata approvata anche da Tobruk. In base a questa nuova norma, il consiglio passerebbe da 9 a 3 membri ed il presidente sarebbe scelto tra una personalità “terza” ed esterna ai membri stessi. Dunque è palese che, una volta attuata questa riforma, al Sarraj potrebbe uscire di scena già prima delle elezioni.
- Dopo la toccata e fuga di Palermo che notizie ci sono di Haftar?
Poche notizie, il generale non si è fatto sentire se non tramite portavoce oppure per mezzo di alcuni deputati a lui vicini. Seguendo quella che è la storia recente di Haftar e partendo dai suoi ultimi comportamenti, in realtà questo non sorprende. Quando da Bengasi c’è un certo silenzio, vuol dire che si sta cercando di mettere a punto le future strategie.
- Complessivamente cosa resta della conferenza di novembre?
Resta comunque qualcosa di positivo, ossia il ruolo dell’Italia e la conferma di una strategia maggiormente inclusiva del nostro paese. Come ha sottolineato nei giorni scorsi Ali Al Saidi, deputato tra i più vicini ad Haftar, se Roma prima guardava solo ad ovest adesso ha rapporti positivi anche con l’est della Libia. Un altro fattore da non dimenticare, in relazione al summit palermitano, è la road map del piano Onu: dopo la chiusura del vertice tutte le parti in causa hanno concordato con l’avvio dell’organizzazione di un nuovo summit ma in Libia. Sembrerebbe che a gennaio questo incontro si terrà realmente e potrebbe questo segnare il via alla fase pre elettorale.