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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
Intervistato all’uscita da una chiesa della sua ex-diocesi di Mazara del Vallo, il Vescovo emerito Domenico Mogavero, visibilmente commosso al ricordo – fra i tanti delitti di Matteo Messina Denaro – della feroce eliminazione del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha dichiarato: “Non è uomo per cui possiamo provare troppa pietà. Ha ammazzato troppo”.
Come avviene in queste circostanze, la frase del prelato ha dato la stura a una girandola di commenti contrastanti, accomunati – forse unanimemente – da una caratteristica: l’assenza di qualsiasi tentativo di capire, di decifrare, prima di sputare la propria sentenza.
Conosco Mons. Mogavero da più di mezzo secolo, ma non così bene da potermi spacciare per suo interprete autorizzato. Perciò, lasciando a lui i chiarimenti su ciò che intendesse affermare, mi limito a commentare la sua asserzione.
La parola-chiave mi pare pietà che, avendo smarrito il significato etimologico latino (devozione verso i genitori, gli antenati e gli dei), nell’italiano corrente oscilla fra varie accezioni semantiche.
In un primo senso, il termine allude a un sentimento emotivo di commiserazione suscitato dalla vista di qualcuno che soffre manifestamente. Questo moto psichico si traduce, talora, in piccoli gesti di solidarietà ‘corta’ come l’elemosina al barbone accucciato su un cartone all’angolo di una strada. Le immagini di un boss ormai non più giovane, in uno stato di salute fortemente compromesso, se non addirittura in fase terminale, potrebbero suscitare questo genere di “pietà”?
L’ex-Vescovo di Mazara del Vallo non sembra escludere questa evenienza e, perciò, mette in guardia l’opinione pubblica dal rischio di un simile “buonismo” a poco prezzo.
E’ vero che , dopo decenni di sangue, si avverte una stanchezza intima cui si potrebbe reagire – forse anche inconsciamente – con il desiderio di chiudere la parentesi storica della mafia stragista. Però sarebbe un desiderio non solo cieco (nessuno può garantire che i mafiosi ancora liberi rinunzino alla violenza metodica, se necessario eclatante), ma anche immorale perché comporterebbe una sorta di riconciliazione, di riappacificazione, con nemici che non sono minimamente pentiti dei crimini consumati. Nessuno ha diritto di perdonare gli assassini se non le vittime, che però non sono più in grado di farlo – o, per lo meno, di comunicarcelo.
Nella concitazione di chi risponde a un’intervista inaspettata, il presule non aggiunge che, esclusa la “pietà” superficiale da telenovela, esiste almeno una seconda accezione del vocabolo: che è la comprensione, razionale e sentimentale, dell’infelicità altrui con il conseguente desiderio che tale infelicità non si aggravi, ma anzi possa in qualche misura essere lenita.
Per sperimentare questo stato d’animo occorre una notevole maturità interiore e una saggezza non proprio di tutti. Esso è infatti il corrispettivo – uguale e contrario – dell’odio, dell’ardente sete di vendetta.
Ebbene, in questo significato, può una persona – tanto più se si riconosce negli insegnamenti evangelici – provare “pietà” per Matteo Messina Denaro?
Se coltivare il risentimento nei suoi confronti ci facesse star meglio, se la vista delle sue ferite alleviasse le nostre cicatrici, se la sua morte arricchisse la qualità della nostra vita, la risposta sarebbe ovviamente negativa.
Ma, se ragioniamo con un minimo di distacco emotivo sulla base dei dati offerti dalla storia – dalla grande storia e dalle nostre piccole storie -, sappiamo che non è così.
A noi “conviene” che Matteo Messina Denaro, invece di sprofondare nell’inferno della disperazione in cui si trova o in cui si é trovato per sua stessa ammissione, recuperi un minimo di dignità ai propri stessi occhi e decida di intraprendere l’unica strada che può salvarlo (non dall’ergastolo a vita, né dall’inferno dei teisti, quanto dalla convivenza irreversibile con il proprio io peggiore): la resipiscenza e la collaborazione con gli organi giudiziari.
Già in una lettera confidenziale del 1 febbraio 2005 scriveva: “Veda, io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l’inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l’ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede? Credo di no” (M. Messina Denaro, Lettere a Svetonio, a cura di S. Mugno, Stampa Alternativa, Roma 2008, p. 58).
Quanto alla morte, aggiungeva il 22 maggio dello stesso anno, “non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni” (p. 68).
Nessuno può sapere se in questi giorni il padrino di Castelvetrano sia attraversato ancora da pensieri e sentimenti simili, anche se è lecito supporre che un tumore allo stadio avanzato non renda particolarmente allegri né agevoli il superamento delle fasi buie.
So solo che le sue immagini non mi provocano nessuna empatia né tanto meno mi sfiora l’idea che gli si possa risparmiare un solo giorno di carcere duro (se non proprio quando non sarà in grado fisicamente di sopportarlo).
Ma so pure che non provare nessuna forma di “pietà” per un fallito come lui – e dunque lasciare che il disgusto emotivo diventi l’auspicio, consapevole, che soffra più che possa nell’animo e nel corpo – avvilirebbe me e i miei concittadini al suo stesso livello di disumanità, senza procurare a nessuno alcun vantaggio effettivo.
Al contrario, se un barlume di “pietà” esterna lo raggiungesse e l’inducesse a provare un moto di “pietà” per se stesso, potrebbe decidersi a regalarsi l’unico lenitivo che gli rimane: cooperare con le istituzioni per smascherare i complici dei suoi orrori di ieri e di oggi.