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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
“Sono fortemente contrario alla politica detta delle porte aperte. E’ arrivato il momento in cui chiunque abbia a cuore il futuro della nazione deve preoccuparsi di questa poderosa ondata d’immigrati. A meno di qualche seria iniziativa l’ondata avvelenerà le sorgenti stesse della nostra vita e del nostro progresso. Ospitiamo nelle nostre città più grandi un numero enorme di stranieri tra i quali proliferano il crimine e le malattie”. Quando, dove e da chi sono state scritte queste parole?
L’anno è il 1905. Il luogo sono gli Stati Uniti d’America. L’autore è Frank P. Sargent, Commissario del Governo federale all’Immigrazione.
A chi si riferiva? Agli italiani che, tra mille peripezie, spesso perdendo la vita prima di raggiungere i porti di partenza o durante le traversate per le condizioni sanitarie intollerabili, sbarcavano a New York.
Ma l’alto funzionario statunitense non faceva di ogni erba un unico fascio: sapeva distinguere, infatti, tra “siciliani e calabresi” (che, a suo parere, “sono i più pericolosi perché sono furbi”) e i veneti, “meno pericolosi perché un pò stupidotti”.
Quattordici anni prima un piroscafo zeppo di questi delinquenti ammorbanti, e dal nome beneaugurante di “Utopia” (per i viaggiatori meno istruiti “Tobia”), era salpato da Palermo alla volta dell’America ma proprio allo Stretto di Gibilterra aveva fatto naufragio, involontariamente speronata da una nave da guerra britannica contro cui si era scontrata a causa di avverse condizioni atmosferiche: dei circa 870 tra passeggeri e membri dell’equipaggio solo circa 150 sopravvissero e poterono scegliere se tornare a casa o raggiungere la Terra Promessa.

Non era certo il primo naufragio in quella rotta né sarebbe stato l’ultimo, ma – poiché erano coinvolte a vario titolo autorità italiane, spagnole e britanniche – i giornali dell’epoca ne parlarono a lungo, seguendo sia i processi giudiziari che i dibattiti parlamentari. Insomma, nonostante i 700 e più naufraghi periti fossero poveri disgraziati, l’incidente ottenne più attenzione nell’opinione pubblica di quanto ne ricevano oggi vicende simili riguardanti emigranti africani o medio-orientali. Ma “la tragedia dell’Utopia”, proprio perché ha interessato esponenti delle “classi subalterne” e non dei “ceti dirigenti”, “non è entrata nella memoria collettiva della nazione” (p.135). 
L’onestà intellettuale e la sensibilità morale di Roberto Lopes l’hanno dunque indotto a ripescare dall’oblio questa tragica pagina di storia nel suo intrigante volume 1891. Il naufragio del piroscafo Utopia (Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2023), impreziosito dalla meditata prefazione di Vincenzo Guarrasi. Il libro sarà presentato mercoledì 7 maggio alle 18.30 presso la “Casa dell’equità e della bellezza” in via Garzilli 43 a Palermo .
L’autore ha inserito l’episodio nel quadro complessivo delle ondate migratorie dalla Penisola (soprattutto dalle regioni meridionali e dalla Sicilia) formate da gente che non abbandonava beni e affetti in cerca di facili guadagni, ma perché costretta da condizioni di sfruttamento disumane nel silenzio complice di governi nazionali legati a doppio filo agli industriali del Nord e ai latifondisti del Sud.
Le pagine che, sulla base dei report dell’epoca, descrivono la strage di uomini, donne, bambini sono davvero toccanti: in frangenti del genere noi umani diamo prova di generosità impensabile (“Vari naufraghi che si erano salvati, non vedendo i loro congiunti si gettarono nuovamente in mare, per salvarli, ma rimasero preda delle onde”, p. 52) e di altrettanto impensabile egoismo (“Le donne restarono abbandonate alla loro sorte perché gli uomini badavano solamente alla propria salvezza, in poche riuscirono a salvare la vita”, p. 50).
Non mancano le osservazioni sulla illegalità sistemiche che resero il bilancio delle perdite più alto di quanto sarebbe stato se si fossero rispettate le normative: solo per citarne una, “a bordo dell’Utopia c’erano solo 160 salvagenti” e pertanto “erano violate le regole del Consiglio del Commercio, che richiedeva la presenza di un numero di salvagenti pari alle persone imbarcate” (p. 50). Come nella migliore tradizione italiana ai superstiti – cui per la verità non era mancata una generosa solidarietà della popolazione civile di Gibilterra e dintorni – toccarono le disavventure supplementari causate dalla burocrazia statale che prolungò a lungo l’effettiva consegna delle somme determinate in sede giudiziaria a titolo di risarcimento per i lutti e i danni subiti.
La lettura del libro, oltre a colmare una lacuna del passato, impone riflessioni anche sul “presente rimosso” (secondo la formula coniata da Guarrasi) in cui “l’Utopia di un mondo migliore” sembra affondata “nell’egoismo e nella indifferenza” (p. 137).
Riflessioni non soltanto, direi ovviamente, riguardanti i flussi migratori verso l’Italia, ma anche – meno scontatamente – il fenomeno dei tanti giovani istruiti che emigrano dall’Italia verso nazioni in cui, pur tra mille difetti della popolazione e asperità del clima, c’è ancora la possibilità di veder riconosciute le proprie qualità professionali ed umane. In cui, a differenza che da noi, professori universitari o primari ospedalieri si diventa non per corredo genetico o per elasticità della schiena o per fantasiosità erotica , ma per meriti oggettivi.
Anche per gli emigranti italiani di oggi ogni partenza é una spartenza (una separazione) che cellulari e internet rendono meno dolorosa, ma non per questo meno irreversibile.
Unica (magra) consolazione: i nostri figli e i nostri alunni non rischiano di annegare fra i flutti, come quel ragazzino africano che pochi anni fa ha portato con sé nel regno dei morti la pagellina scolastica, a perenne vergogna di chi si ritrova un cuore talmente inaridito da non avvertire il bisogno di piangere quando gliene affiora il ricordo.