L’India nel cuore, sulla pelle, nei capelli, negli occhi, nei colori, negli odori, nel mistero di passati eterni, nei cumuli di rifiuti, nelle case per una notte, di plastica e di cartone e negli incanti dei marmi e degli intarsi, nella rete dei fili elettrici sospesi e nelle trame dei ricami degli archi e dei palazzi regali.
Un pugno nello stomaco e una visione splendente sfumata in una dimensione inspiegabile, uno slum ai bordi di un albergo sfarzoso e un mercato di curcuma, verdure e banane, il Forte Rosso possente e antico e la cisterna capolavoro di Abhaneri.
E gli odori, mille odori pungenti di spezie, sudore, fumo, patchouli, incenso, olio fritto, hennè e olio di gelsomino ad ogni respiro nei sari e nei capelli delle donne.
E’ nella contraddizione assoluta tra precarietà, indifferenza, devozione e tentazioni materiali, nella percezione continua del cammino sul filo sospeso in equilibrio tra il domani e il nulla, si annida il fascino dell’India.
E’ nella profondità degli sguardi senza fondo dei bambini e negli occhi rassegnati di mucche incredibilmente magre e di cento, mille cani esausti, sfiniti, ovunque in mezzo alle strade pronti a cento e mille scodinzolate per una carezza inaspettata,un gesto d’amore imprevisto che si scopre un’India contemporanea trascinata dall’eternità dei riti.
E’ l’India, pacatamente indifferente, che ribolle nella moltitudine quotidiana in un movimento continuo senza affanno, senza percorsi urgenti, con gentilezza e senza empatia.
E’ l’India nelle strade impossibili da attraversare, nei suoni senza sosta dei clacson che urlano su qualsiasi mezzo si muova anche e solo per rivendicare una presenza; un oceano di traffico senza regole, senza logica e senza controlli. Un’ondacontinua di macchine, autobus, pullman, camion, carretti, asini, cavalli, dromedari, biciclette antiche e motociclette impolverate.
La periferia di Delhi si unisce alla capitale in una scia di mercati, di mezzi di fortuna o di sfortuna, autobus stinti carichi di esseri umani fino all’inverosimile in mezzo a terra secca, pezzi di asfalto, sudore, sorrisi deboli, tikka sulla fonte, trecce lunghe,strisce di hennè rosso e veli fluttuanti di sari.
E’ l’India con il gioco duro delle caste che sarebbe dovuto scomparire negli anni ’50, ma è un richiamo costante nella scelta della vita di coppia o di un mestiere già disegnato.
E’ il deserto terroso e magico di Bikaner e di Jasailmer, villaggio antico di carovanieri e di arenaria gialla che brilla di una luce magica e diventa la città dell’oro in cui la polvere si perde in minuscoli coriandoli dorati seguendo uno spiraglio di sole tra i ricami delle pietre dei templi jainisti.
Altri visi, altri occhi e autostrade incredibili in cui si possono incrociare i sensi di marcia, le motociclette di ogni epoca, le persone a piedi, qualche cane coraggioso e le mucche insieme alle capre abituate al frastuono dei clacson alla ricerca perenne di un filo di erba verde.
Le tante Indie segrete si srotolano nei chilometri e nei colori un tempo indaco e oggi di mille sfumature di Jodhipur, la città blu che mostra le facciate azzurre come quinte di un teatro soltanto nel mosaico svelato dall’alto del Forte Meherengar.
Ancora mercati, veli di sari, turbanti sikh, barbe e baffi nerissimi o ramati dall’hennè.
Si mastica ancora il tabacco, soprattutto fuori dai centri urbani, che arrossa denti e lingue e si continua a sputare nelle strade come cento anni fa.
E l’immagine poi si cancella negli intarsi di legno delle haveli struggenti e bellissime e nei mille balenii dei bangle, i sottili braccialetti coloratissimi sui polsi e sulle braccia delle donne insieme alle cavigliere lucide sulla pelle scura dei piedi nudi nei sandali di gomma.
Sorrisi di gentilezza e di ospitalità senza empatia: siamo i figli lontani di un sentire diverso uniti da emozioni differenti.
La religione induista animata da déi potenti per metà uomini e per metà animali ( Ganesh, Hanuman), figure con simbolismi metaforici di creazione e distruzione (Shiva, Durga, Rama) permea interamente la esistenza nelle volte del karma che rincorre l’anima insieme ai residui delle ceneri dei corpi sulle pire nella metampsicosi di un processo espiatorio ineluttabile fino alla purificazione. E’ la matrice del grande blocco di rassegnazione che continua a frenare la crescita omogenea e costante dell’India.
Un miliardo e mezzo di persone – l’ultimo censimento risale al 2011 – che nel 2050 potrebbero superare la crescita della popolazione della Cina. Un progresso lento per la maggior parte degli indiani, rapido solo per le classi più ricche che vivono in quartieri puliti e hanno figli ingegneri informatici bravissimi o esperti in energie e risorse o docenti in quelle Università straniere dove si sono formati culturalmente prima di tornare nelle case di Udaipur, di Channay o di Mumbay o tra le braccia di Mother Ganga a Varanasi.
Pier Paolo Pasolini, in India come inviato insieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante nel 1961, aveva notato con intuito e sensibilità che “….gli indiani non sono mai allegri, spesso sorridono, è vero, ma sono sorrisi di dolcezza non di allegria…” perchè “…la vita in India ha i caratteri della insopportabilità…” (da “L’odore dell’India”).
Eppure Narendra Modi – premier e leader del Partito popolare indiano – prova a stemperare la tendenza ad un maggior controllo delle libertà con proposte di modernizzazione il cui fulcro è comunque ancorato alla religione.
Lo spettro della crescita dei musulmani è alla radice della legge CAA – Citizenship Amendment Act – in vigore dallo scorso 11 marzo, che concede la cittadinanza indiana ai migranti dall’Afghanistan, dal Bangladesh e dal Pakistan purchè di fede e confessione induista.
Ci saranno disordini e proteste perchè i discendendenti dei mughul, in crescita, in terra indiana hanno ancora l’aura dell’invasore e inducono alla nazionalizzazione identitaria del Paese.
Prevarrà comunque il senso dell’India, l’appartenenza ad un mondo che trasuda religiosità immanente, che ama il ricorso alla medicina dei rimedi naturali dell’Ayurveda e vive del cibo profumato e colorato insieme alla delicatezza del lassi e al sapore dolce del chai.
E’ il fascino fragile ed eterno dell’India, sospeso e magico come il marmo bianco del Taj Mahal perfetto nelle brume delle albe e nel fuoco dei tramonti, simbolo della vita indiana che si intreccia alla morte nel nodo della spiritualità che si nutre anche di carnalità.
E’ la magia dell’India che trova l’anima nelle parole di Moravia “…dovresti sentire l’India come si sente, al buio,la presenza di qualcuno che non si vede, che tace eppure c’è.” ( da “Un’idea dell’India).
Senior Osint and Media Analyst. Ha praticato il mondo delle investigazioni e dell’intelligence. Appassionata di mare cani rock e figlia non necessariamente in quest’ordine.