Afghanistan di dolore, di lotta e di governo. Con Palazzo Chigi che primeggia nella carambola e nel gioco di sponda fra leader internazionali e partiti nazionali.
Tradizionale cavallo di battaglia della sinistra, dal pacifismo filo sovietico e anti Nato, al Vietnam, agli Euromissili, alle mobilitazioni per i palestinesi, con l’immane tragedia afghana la politica estera si è trasformata in terreno convergenza e di confronto dei partiti.
Su tutti dall’inizio dell’estate si erge il prestigio e il livello della mediazione internazionale avviata dal Premier Mario Draghi come presidente di turno del G20.
Un ruolo che, per la drammaticità del momento e per l’autorevolezza e i riconosciuti riscontri dell’attenta azione promossa da Draghi per raccordare e superare pregiudiziali e criticità nei rapporti fra le superpotenze, l’Europa, la Nato e l’Onu, conferisce all’Italia un inedito e fino adesso mai raggiunto protagonismo internazionale.
Problematico, senza paracadute o decompressione, colmare anche mediaticamente il notevole dislivello fra i voli ad alta quota di Palazzo Chigi nell’ambito delle capitali di tutto il mondo ed il confronto fra i partiti impegnati nella campagna elettorale delle amministrative e nelle strategie di medio e lungo corso per Quirinale e gli assetti degli schieramenti.
Al tentativo di Draghi di traghettare l’Italia nel futuro, trasformandola in un Paese digitalizzato, liberata dal mostro della burocrazia, con infrastrutture moderne e un livello di trasporti e collegamenti efficienti, si contrappone una realtà politica frastagliata e oggettivamente arretrata, che non corrisponde all’attualità della tumultuosa trasformazione imposta dal colpo di maglio di una pandemia che ha stravolto rapporti sociali, livelli occupazionali, assistenza sanitaria, situazione scolastica e la concezione stessa del lavoro e dei livelli retributivi.
La dialettica fra i partiti cavalca lo scempio dell’umanità degli attentati terroristici e dell’inferno complessivo di Kabul e dell’Afghanistan, ma finisce con l’avvitarsi e confrontarsi con i timori per lo straripare dell’esodo dei profughi, con gli interessi elettorali e corporativi contrari ai provvedimenti necessari per fronteggiare la pandemia, dalle dimissioni del sottosegretario leghista Durigon, alle “uscite” dei candidati al Campidoglio e ai comuni di Milano, Torino Bologna e Napoli.
Il salto di qualità, fra gli sgoccioli delle ferie e la ripresa a pieno ritmo, sarà impresso ai primi di settembre dalla riforma del fisco e dalla legge sulla concorrenza che il Governo intende fare approvare celermente per incassare la seconda tranche dei fondi europei, dopo l’anticipo ottenuto con la riforma della giustizia.
Come per la Giustizia le distanze fra le forze politiche della maggioranza sono notevoli: Conte e i 5 Stelle alzano muri contro la prevista rimodulazione, ovvero il ridimensionamento, del reddito di cittadinanza. Salvini e la Lega oscillano fra le tesi della flax tax, cioè dell’aliquota fissa sul reddito, e quelle dell’anticipo della pensione a quota cento. Il Pd è alle prese con il braccio di ferro fra il Ministro del Lavoro Andrea Orlando e Confindustria su delocalizzazioni e ammortizzatori sociali. Ma nonostante i fuochi e fiamme dei grillini, gli interventi di Salvini e di Enrico Letta, sull’onda della discussione autunnale del documento di finanza pubblica, Mario Draghi bypasserà con stile british gli ostacoli e varerà le riforme richieste dal Recovery Plan.
Ai bilanci autunnali, che di solito tengono conto di quanto si è finora fatto per calibrare quanto è possibile realisticamente ottenere dopo il giro di boa del prossimo anno, mancano i risultati delle amministrative. Esiti che confermeranno o faranno saltare i progetti di alleanze e di unificazioni.
Da una parte l’alleanza fra 5 Stelle e Pd, messa a rischio dalla scarsa consistenza, o secondo i sondaggi più pessimistici dalla non sopravvivenza, dei grillini alle amministrative.
Mentre nel centrodestra un eventuale insuccesso, non solo a Roma, ma anche nella maggior parte delle altre grandi città, Milano, Torino, Bologna e Napoli, acuirebbe le divisioni fra la Lega e Fratelli d’Italia, fino a provocare una frattura difficile da ricomporre.
Ma se in politica fossero decisivi i sondaggi, le previsioni e le ipotesi, da tempo governerebbero i sondaggisti. Che invece spesso prendono clamorose cantonate e sono frequentemente smentiti dalla matematica dei voti. I soli numeri che nelle democrazie compiute riflettono le opinioni e le valutazioni dei cittadini.