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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Ancor oggi si è costretti a scrivere libri che, nel XXII secolo, appariranno inconcepibili. La violenza non appartiene a Dio. Relazioni omosessuali e accoglienza nella Chiesa (Calibano Editore, Novate Milanese 2021), di Antonio De Caro, è uno di questi volumi. In esso, infatti, l’autore – sfidando secoli di pregiudizi con pacatezza di toni, abbondanza di dati e rigore argomentativo– tende a dimostrare ciò che ogni persona di buon senso e di buon cuore vede da sé: che la chiesa sbaglia nel condannare l’omosessualità e dovrebbe, per coerenza con lo specifico del messaggio gesuano, rivedere radicalmente il proprio giudizio morale e la propria prassi quotidiana.
L’autore sostiene la sua tesi con garbo, regalandoci qua e là osservazioni ora ironiche ora venate di poesia. Lascio al lettore curioso il piacere di rintracciare queste perle sparse e mi limito a tre considerazioni – per così dire – in calce.
La prima: la “chiesa” di cui parla De Caro sin dal sottotitolo è la chiesa cattolica. Per fortuna, o per grazia di Dio, in quasi tutte le altre chiese cristiane (valdese, anglicana, luterana, battista, metodista ecc.) la situazione è ormai abbastanza evoluta: le persone omosessuali sono ammesse a pieno titolo nelle comunità, anche come pastore e pastori. La diffidenza vetero-scientifica verso di esse – basata sulla falsa convinzione che si tratti di soggetti o malati o perversi – persiste solo, fuori dall’area d’influenza del Magistero cattolico ufficiale, nelle chiese orientali ‘ortodosse’ e in alcune sette fondamentaliste ‘evangelicali’.

Una seconda considerazione (che avanzo sottovoce nella consapevolezza di rischiare di scadere nella psicoanalisi da strapazzo): la durezza di condanna dell’omosessualità sembra intensificarsi, in maniera direttamente proporzionale, man mano che va palesandosi alla luce del sole che si tratta di una condizione psicologica ed esistenziale sempre più diffusa fra preti, frati e suore. E’ come se la chiesa cattolica alzasse la voce per coprire un rimorso di coscienza: una sorta di rituale apotropaico con cui s’illude di esorcizzare ciò che ritiene un ‘male’ interno (e che non si vuole, invece, accettare serenamente come un dato ‘naturale’) stigmatizzandolo all’esterno dei propri quadri dirigenti: negli ‘altri’.
Una terza considerazione riguarda la ragion d’essere di un libro come questo. Mentre procedevo nella lettura, mi chiedevo perché l’autore – invece di perdere a tempo a contestare gli insegnamenti del Magistero cattolico – non avesse aderito a una delle tante altre chiese cristiane (valdesi, battiste, metodiste, anglicane…) che, ormai da decenni, accettano fra i propri membri persone omosessuali; in molti casi ne celebrano il matrimonio e le ammettono al ministero pastorale.
Perché impelagarsi in dispute esegetiche e teologiche medievali e non decidere di vivere la propria sequela del vangelo di Cristo in comunità, di varia denominazione, in cui la lettura della Bibbia è sfrondata da interpretazioni erronee (o de-constestualizzate)? La domanda ha senso. E anche la decisione di cambiare chiesa di appartenenza (come decidono tanti gay e tante lesbiche) avrebbe senso. Ma ciò non toglie che iniziative come questa di De Caro svolgano una funzione preziosa. Infatti, in Paesi come il nostro, la chiesa cattolica costituisce tuttora (sia pur in misura decrescente) un’agenzia culturale influente ad di là dei propri recinti istituzionali.
Essa condiziona la formazione dell’opinione pubblica: “e quando parlo dell’opinione pubblica, alludo alle famiglie, agli amici, ai colleghi delle persone omosessuali che poi si vedono respinte da loro a causa di un’intolleranza alimentata anche da alcuni messaggi, o da alcuni silenzi, della Chiesa cattolica romana” (p. 54).