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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
La mafia si è col tempo trasformata ed evoluta, camuffandosi e cambiando pelle camaleonticamente per proteggere gli interessi che le sono cari e mantenere salda la sua egemonia. Lo spirito che l’anima però non è cambiato e rileggere i primi testi che ne colsero la presenza e la sostanza non è tempo sprecato. Specie se in questi testi sono presenti considerazioni e proposte concrete per contrastarla, ancor oggi attuali.
E’ il caso de “Nel regno della mafia” di Napoleone Colajanni, un saggio che sorprende per le analisi acute, le severe e coraggiose critiche alle istituzioni, la pars costruens tuttora degna di considerazione.
“Nel regno della mafia” risale al 1900 e oggi le Arti grafiche palermitane lo ristampano per onorare il centenario della morte (2 settembre 1921) di Napoleone Colajanni, un siciliano dalla forte tempra morale che, nelle vesti di politico (parlamentare per 10 legislature) e di studioso, ha contribuito a tracciare la storia dell’isola e dell’Italia.
E’ significativo che il libro si apre con un intero capitolo dedicato al delitto Notarbartolo e allo scandalo della Banca Romana. Lo è perché quel delitto è uno dei primi misteri che gettano una nebbia fitta sulle istituzioni del nostro Paese e perché lo scandalo della Banca Romana, strettamente legato all’assassinio dell’allora direttore generale del Banco di Sicilia, fu denunciato in Parlamento da Colajanni al punto di provocare le dimissioni di Giolitti, capo del governo pro tempore.
E’ chiaro che un libro che al primo capitolo si sofferma sul delitto Notarbartolo e sullo scandalo della Banca Romana non fa sconti alle istituzioni. E qui uno dei motivi che rendono il saggio di Colajanni attualissimo: l’intuizione che la mafia si avvale del supporto complice delle istituzioni e che ciò la rende più potente.
Nel saggio, Colajanni richiama gli scritti di allora sulla mafia, sulla questione meridionale e sulla criminalità, a partire dall’inchiesta sulla Sicilia di Sonnino e Franchetti del 1876. La tesi sulle radici dello spirito mafioso sostenuta da Colajanni è chiara: sono le condizioni sociali e i cattivi governi a costituire l’humus del fenomeno mafioso. Non solo, e anche qui una considerazione di straordinaria lungimiranza: la mafia è un fenomeno non limitato alla Sicilia ma che può estendersi, sussistendone i presupposti socio-politici, in ogni regione d’Italia e perfino oltre la penisola. Colajanni peraltro polemizzò anche in altri scritti con chi predicava la correlazione tra la criminalità e la razza e con i seguaci, in quei tempi non pochi, delle teorie lombrosiane.
Nel testo di Colajanni, socialista di radici mazziniane, palesi sono le accuse a chi, nel giovane Regno Sabaudo, non solo ignorava la questione meridionale ma l’ aggravava con decisioni che penalizzavano le regioni del Sud Italia.
A conclusione le ricette per debellare il fenomeno mafioso. Vale la pena riportarle perché in sintesi indicano vie da percorrere per nulla anacronistiche: “1°) Amministrazione equa, pratica, morale e severamente controllata dal governo centrale; 2°) Polizia e giustizia forti, pronte accessibili a tutti, autonome e responsabili; tali da imporre il convincimento che al disopra di tutto e di tutti, unica forte, unica arbitra è la legge”.
Il libro è arricchito dalla prefazione di Lino Buscemi e dai preziosi contributi di Felice Cavallaro e Carmine Mancuso.