Donne dell’Afghanistan in bilico sulla legge islamica: senza burqa, ma destinate ad una vita da schiave.
Agli ottimisti ed ai compassionevoli, favorevoli alla pax talebana, è consigliata un’andata a Kabul, pur senza sicurezza di ritorno.
Anche se non riflette la situazione reale del resto del paese, sul quale è calato un sinistro silenzio che sa di vendette, repressione e morte, la capitale trattiene ancora il fiato nell’illusione che spentisi i riflettori dei media internazionali i talebani non passino dalle parole ai fatti e applichino con intransigenza la sharia, cioè che riprecipitino il paese nel più cupo medio evo.
Paradossalmente l’apocalisse annunciata dell’Afghanistan avrà conseguenze ancora più tragiche se non si comprende appieno la lezione storica e strategica delle cause e degli effetti degli avvenimenti succedutisi nel paese fin dal 1978.
Il colpo di stato che in quell’anno istaura una repubblica comunista filo sovietica segna una profonda frattura degli equilibri tribali dell’Islam allora moderato nell’antico regno crocevia dell’Asia, fino ad allora cautamente apertosi alla cultura e alla modernizzazione occidentale.

L’oltranzismo marxista-leninista provoca una violenta e diffusa reazione, monopolizzata dal fondamentalismo islamico. Reazione che non viene arginata neanche dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, che anzi segna l’inizio della resistenza dei guerriglieri Mujaheddin, i combattenti per la liberazione, fra i quali si distingue la fazione estremista dei talebani, gli intransigenti studenti delle scuole coraniche. Una copia ancora peggiore di Torquemada e dell’Inquisizione spagnola sul versante islamico.
A questo punto la storia ripete uno dei suoi errori fatali: per provocare la sconfitta sovietica, Washington e la Nato cominciano ad armare Mujaheddin e talebani con armi sofisticate che consentono loro di fronteggiare i russi.

Esattamente come quando nel 1917 lo Stato maggiore del Kaiser tedesco contattò Vladimir Lenin, rivoluzionario russo in esilio in Svizzera, lo mise su un treno e via Svezia e Finlandia lo spedì a Mosca, dove lo stratega della rivoluzione d’Ottobre impose alla Russia post zarista di arrendersi senza condizioni alla Germania.

Solo che, come per la rivoluzione marxista-leninista russa destinata a destabilizzare il mondo, gli Usa e l’occidente non si sono resi conto che con l’obiettivo di provocare il collasso dell’Unione sovietica avevano innescato il mostro del fondamentalismo islamico, fino ad allora rimasto circoscritto all’Iran dell’Ayatollah Khomeini.
Così mentre gli eredi di Lenin, prima alleatisi per un riflesso pavloviano con la Germania di Hitler e che poi, dopo aver constatato sulla propria pelle la disumanità dei nazisti, sono diventati il nemico numero uno delle democrazie occidentali, a mezzo secolo di distanza la storia si ripete sul versante afghano.
Dopo il ritiro con oltre 50mila vittime dell’Armata Rossa, i talebani si sono infatti scatenati contro chi li aveva armati: Stati Uniti e occidente, trasformando l’Afghanistan nella base dei terroristi islamici che hanno distrutto le Torri gemelle a New York e provocato gli attentati dell’11 settembre del 2001.
E allora, in che modo metabolizzare e se possibile rimediare alla lezione afghana, ovvero alla constatazione che l’innesco delle rivoluzioni e del terrorismo provoca conseguenze incontrollabili, destinate a ripercuotersi sempre contro chi le ha innescate?
Le risposte, canterebbe Bob Dylan, soffiano nel vento della storia. Intanto evitando che la storia si ripeta, come sostiene Tucidite, il primo ad esserne testimone universale.
Al di là delle autoanalisi sempre dolorose e complesse, l’unica speranza che si intravede nello sviluppo ancora imprevedibile dell’apocalisse in progress dell’Afghanistan, è che i semi della democrazia, della libertà, dell’emancipazione femminile, compresi quelli tecnologici degli smartphone, del consumismo e del web, vissuti negli ultimi venti anni a Kabul, Kandahar, Herat, Mazar-i Sharif, Jalalabad Kunduz, in tutte le città e perfino nei villaggi sperduti del paese, fioriscano spontaneamente e provochino una reazione popolare a cominciare dalle donne afghane, vittime principali della medioevale restaurazione dei talebani ed alle quali è permesso esclusivamente di essere…schiave.
Una rivolta che è solo questione di tempo, e purtroppo di sopravvivenza, in un paese senza industrie, materie prime, agricoltura, strade, ferrovie, infrastrutture ed il cui unico sostentamento da quasi 50 anni è la guerra civile, cioè le risorse, le finanze, la sanità, le scuole, i trasporti e tutto il resto che gli eserciti che si sono avvicendati a Kabul hanno garantito.
A proposito della storia e della lezione afghana, forse hanno ragione entrambi: Karl Marx e Miguel de Cervantes. Marx quando affermava che : “ I fenomeni storici accadono sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.”
Mentre Cervantes, con un taglio molto più concreto, sostiene che: “La storia è madre della verità, emula del tempo, depositaria delle azioni, testimone del passato, esempio e annuncio del presente, avvertimento per il futuro”.
Non ci sono altre alternative: la storia o arricchisce e fa evitare di ripetere scelte controproducenti e disastrose, oppure semplicemente travolge

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Fondatore e Direttore di zerozeronews.it
Editorialista di Italpress. Già Condirettore dei Giornali Radio Rai, Capo Redattore Esteri e inviato di guerra al Tg2, inviato antimafia per Rai Palermo e Tg1