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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
Prodigi della pandemia, del lungo lockdown che ne è conseguito costringendoci il più delle volte a restringere gli ambiti delle relazioni, altre volte – eccezionalmente – ad ampliarli seppure non superando il confine del virtuale. Se non ci fosse stato il Covid, Giannino Balbis – poeta e critico letterario ligure di lungo corso – ed Emanuela Mannino, poetessa palermitana emergente non avrebbero dato vita a una proficua corrispondenza da cui è nata l’idea di sfidarsi a singolar tenzone poetica – come nella tradizione lirica medioevale – sul tema dell’amore e della morte. E quella sfida non si sarebbe risolta in una silloge, di recente edita da Macabor col titolo Erotanasie. Fantasie d’amore e morte (poema a due voci).
Il titolo – riferito a Eros e a Thanatos, al contrasto tra la vita e la morte – e il sottotitolo della raccolta rinviano al suo contenuto: il dialogo in versi tra un uomo e una donna (identificati rispettivamente con gli pseudonimi Abbagli insonni e Costanza) che si sono amati in vita e che adesso, separati dalla morte, tentano disperatamente di dare un seguito alla loro relazione sentimentale.
Il viaggio delle loro anime nei misteriosi luoghi dell’Eternità ultraterrena li porta a incontrare altre anime (perlopiù di figure mitologiche e letterarie) prigioniere dell’amore, il sentimento più forte e durevole capace di sfidare le leggi del tempo, e a confondersi e immedesimarsi con esse: “Abbiamo preso in prestito (usurpato?) / le vite d’altri noi, perché le nostre / (quest’obbligo di giorni pieni-vuoti, / di perdite latenti, / di oggi senza poi) / camminano su rotte divergenti”. I due innamorati, d’altronde, vivono in una dimensione fantastica e irreale, dove tutto è possibile sul piano immaginifico e tutto impossibile sul piano del reale. E’ la poesia il filo che continua a legarli e a rinnovare il loro disperato amore ora che “la Carne è ormai muta cenere”: “Se questa deve essere, / questa per sempre sia / la nostra sorte: io sposo a te di versi / (come dicesti un giorno), / tu sposa mia di rime” canta Abbagli insonni, e Costanza le risponde: “Dovremo darci senza riceverci / miracolo quando / nel poliedro del cuore ignorante / esploderanno i colori / d’un sostantivo / di un nuovo ardore”.
La silloge, che merita di essere letta per l’originalità e la qualità dei versi, sebbene nutrita, già nella scelta della forma espressiva, di colti richiami letterari, lungi dal risolversi in un mero esperimento accademico, è ravvivata da una prorompente vitalità poetica. Ed é una vitalità poetica alimentata dalle dicotomie: tra l’amore e la morte innanzitutto ma anche tra la voce maschile e quella femminile, entrambe travolte dalla passione ma più raziocinante la prima, immediata la seconda. La contrapposizione – fulcro del componimento e di ogni tenzone – è ancora più tangibile per la distanza anagrafica e conseguentemente dal diverso bagaglio dei due autori – entrambi, sia chiaro, di significativo spessore culturale – che in qualche misura si riflette nel loro linguaggio poetico, o se vogliamo in quello di Abbagli insonni e di Costanza. Nell’ispirato delirio poetico di Abbagli insonni si coglie un più accentuato gusto per l’elaborazione, in quello (altrettanto inspirato) di Costanza una più marcata naturalezza, ferme restando l’unità e l’armonia metrica della raccolta.