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La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

by Maggie S. Lorelli

ll web é la nuova frontiera della violenza sulle donne. Gli abusi e i soprusi che le donne subiscono quotidianamente anche in rete minano la sfera psicologica, provocando ferite non meno dolorose rispetto a quelle fisiche.

Uno degli attacchi più aggressivi alla dignità femminile è il revenge porn, che rientra nei reati digitali lesivi della cosiddetta e-reputation, che possono avere gravi conseguenze nella vita quotidiana. Pensiamo al recente caso della maestra d’asilo di Torino, licenziata dopo la diffusione in rete di un video hard da parte dell’ex fidanzato.

La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web
(foto StyLise)

Quali sono attualmente le forme di tutela legale per chi è vittima di questi attacchi?

“Per quanto si è appreso dai giornali il caso di Torino – spiega Nicole Monte, Avvocato specializzato nelle Nuove Tecnologie, Senior Associate della legal tech company italiana LT 42 – da un punto di vista giuridico, sembra configurare il reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612ter). Nonostante questo tipo di condotta fosse perseguibile anche prima, questo è un reato introdotto in forma autonoma nel luglio del 2019, dopo un lungo dibattito parlamentare. In particolare – continua Nicole Monte – l’articolo ha previsto due diversi comportamenti potenzialmente perseguibili: il primo è quello di colui che, dopo aver realizzato un contenuto destinato a rimanere privato, lo diffonde senza il consenso della persona ritratta, il secondo è invece quello di chi, dopo averlo ricevuto, prosegue nella diffusione. Questa seconda ipotesi può configurarsi solo se la condivisione è avvenuta “al fine di recare un danno alla vittima”, non è dunque perseguibile chi diffonda contenuti di questo genere per mera goliardia”.

La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web
Nicole Monte

Questo può rappresentare un ostacolo al tentativo di arginare la diffusione della pornografia non consensuale?

Lo è, anche se c’è da aggiungere che ciò da un lato evita un carico inutile per le Procure e i Tribunali, e dall’altro può rappresentare il perno per costruire una strategia difensiva nei casi in cui, come in quello di Torino, una serie di soggetti hanno contribuito alla diffusione del contenuto a sfondo sessuale senza comprenderne il disvalore sociale. Da avvocato ritengo che la migliore strategia difensiva possibile sia un diritto fondamentale. Il processo farà emergere tutte le responsabilità del caso.

Non crede che anche i cittadini debbano assumersi delle responsabilità nell’approccio al digitale?

Certamente. Da cittadino ritengo sia necessario compiere un’evoluzione del mindset con cui ci approcciamo al web. La nostra è una generazione digitale, perché vive anche attraverso i contenuti digitali. Questo ha inevitabilmente trasposto nel digitale alcuni retaggi culturali relativi alla disparità di genere. Se prima una donna maggiormente spigliata durante una conversazione veniva additata nel mondo analogico, ora lo è nel mondo digitale. Quello che cambia é essenzialmente la diffusione del sopruso posto in essere, e quindi del danno di quella che lei ha definito e-reputation. I retaggi culturali nei casi più gravi possono assumere i tratti del caso di Torino, in cui un contenuto digitale viene diffuso con l’alibi di interrogarsi sulla capacità professionale di una donna, nei casi meno gravi rappresenta una micro- violenza quotidiana. Si pensi a quante volte la parola di una professionista passa in secondo piano rispetto a un giudizio sul suo aspetto fisico.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

Come ci si può difendere da questi soprusi? Può fornire alle donne un consiglio pratico?

Da avvocato e cittadino, faccio parte di una associazione no profit contro il revenge porn, Permesso Negato. Lo scopo dell’associazione è quello di fornire soluzioni digitali e di raccogliere il racconto delle vittime, spiegando loro che esistono delle soluzioni, sia giuridiche che digitali.

Molti altri reati digitali, come il cyberstalking o il cyberbullismo si accaniscono contro soggetti o gruppi deboli della popolazione, in particolare donne e gli adolescenti. Si ha l’impressione che, nel mare magnum del web, non ci sia una rete di protezione sociale, e che le vittime subiscano passivamente senza possibilità di difesa. Le denunce di questo tipo di reati sono ancora troppo poche?

Entrambi i reati che ha citato sono relativamente recenti. Lo stalking, anche nella forma cyber, è stato introdotto nel nostro ordinamento nel2008, mentre la legge sul cyberbullismo è stato emanata nel 2017. Entrambi hanno elevato la soglia di attenzione su questi fenomeni, le denunce sono aumentate e non perché vi fossero più reati, ma perché è emerso il sommerso. Come dicevamo, la questione non riguarda il web ma la diffusione che internet consente. Io faccio questo lavoro perché amo la tecnologia, ma come in ogni cosa ci sono pro e contro. Fenomeni di bullismo e stalking esistevano anche prima dell’avvento del web, ma non avevano la stessa eco. La verità è che dobbiamo compiere un balzo generazionale e comprendere che, nella nostra identità digitale, abbiamo gli stessi diritti e libertà fondamentali di cui godiamo nella vita di tutti i giorni.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

Le sembra che l’opinione pubblica abbia la tendenza a considerare i reati digitali meno gravi rispetto a quelli compiuti in presenza fisica?

Nei casi di revenge porn, cyberstalking o cyberbullismo, la vittima troppo spesso si sente responsabile per ciò che subisce, si sente colpevole per avere realizzato il contenuto o per il solo fatto di avere un profilo su un social network. Mentre è chiaro il disvalore della condotta di un insulto a voce alta e reiterato nei confronti di un minore da parte di alcuni compagni di classe, è molto più difficile comprendere come quello stesso insulto sia molto più grave se reiterato sul profilo social: la maggior parte degli adulti ha la pericolosa tendenza a liquidarlo con un “ma sì è solo su Facebook”. E invece no: è proprio perché è nei commenti, nei post, nei messaggi privati che è grave e rischia di provocare ansia o depressione in un adolescente. Non è facile da comprendere per le generazioni che hanno vissuto internet già in età adulta.

Può suggerire qualche strumento per orientarsi nella giungla del web e riconoscere il confine fra comportamenti scorretti e reati digitali?

Sono stata legal advisor di una start up innovativa a vocazione sociale COP – Chi Odia Paga. Compilando un questionario guidato e gratuito, fornisce un feedback digitale all’utente e gli consente di comprendere come la condotta che sta subendo possa essere un reato come diffamazione, stalking o revenge porn. Sulla piattaforma sono disponibili altri servizi utili alla difesa, ma il feedback è fondamentale per far capire a una potenziale vittima che ciò che subisce è illecito ed esistono dei mezzi per difendersi.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

Chi ha il coraggio di denunciare, può contare sulla certezza del diritto o la legislazione è ancora troppo elastica e tollerante rispetto a questo tipo di reati?

Le norme esistono e vengono applicate, ci sono magistrati preparati e attenti, molte Procure hanno pool e dipartimenti dedicati ai reati informatici, e sezioni di Polizia Giudiziaria specializzate. Anche il nostro Legislatore cerca di intervenire ed introdurre le fattispecie necessarie per un corretto inquadramento dei fenomeni digitali, pur in un ordinamento che ha delle lungaggini sistemiche. Certo è che quel gap generazionale si ripercuote anche nel sistema giuridico, così come nelle nostre famiglie o tra i nostri amici e conoscenti. Nessuno è infallibile, quindi più capitare che non vi sia una corretta comprensione del caso. Deve crescere il livello di attenzione nella vita quotidiana per aversi certezza del diritto: i sistemi giuridici riflettono necessariamente i limiti culturali del Paese in cui sono inseriti.

Ci sono invece altri comportamenti che non rappresentano veri e propri reati, ma che sono comunque lesivi della dignità personale, come le manifestazioni di odio e di aggressività verbale, di cui spesso le donne sono il principale bersaglio. Mi riferisco in particolare al body-shaming e all’hate-speech. Crede che la legislazione sia ancora lacunosa riguardo a questo tipo comportamenti?

L’hate speech, dal mio punto di vista, rappresenta la vera piaga del web, infesta il nostro vivere il web quotidianamente. Ormai non facciamo più nemmeno caso alla violenza con cui alcuni soggetti commentano sotto ogni articolo, video, meme o post. Il tenore di alcuni commenti è di una aggressività tale che faccio fatica a immaginare che l’autore sarebbe davvero in grado di ripeterlo a voce alta. Lo trovo personalmente intollerabile e professionalmente mi chiedo spesso se configuri il reato di diffamazione o meno – nel 90% dei casi mi rispondo di sì. In merito alla legislazione, un traguardo significativo è stato rappresentato dall’istituzione della Commissione Segre, il 30 ottobre del 2019, le cui finalità hanno fornito una prima definizione di questo fenomeno, stigmatizzandolo. Nello specifico la Commissione ha lo scopo di ricerca, analisi e proposta in merito al controllo ed indirizzo della concreta attuazione delle convenzioni e degli accordi sovranazionali e internazionali e della legislazione nazionale relativi ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e di istigazione all’odio e alla violenza, nelle loro diverse manifestazioni di tipo razziale, etnico-nazionale, religioso, politico e sessuale. La Commissione svolge anche una funzione propositiva, di stimolo e di impulso, nell’elaborazione e nell’attuazione delle proposte legislative, ma promuove anche ogni altra iniziativa utile a livello nazionale, sovranazionale e internazionale.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

Ritiene che le piattaforme online siano sufficientemente responsabili nella governance dei contenuti?

Le piattaforme si stanno muovendo per contrastare il più efficacemente possibile tutti i fenomeni di cui abbiamo parlato finora. Ovviamente non è semplice, perché da un lato ogni piattaforma ospita i contenuti degli utenti, mantenendosi neutrale rispetto a questi ultimi, dall’altro l’unico modo per contrastare hate speech e violenza è quello di rimuovere questo tipo di contenuti. Nonostante il bilanciamento tra questi due diritti fondamentali non sia affatto scontato, soprattutto nell’analisi di casi concreti, tutti i social hanno adottato policy e termini e condizioni d’uso che vietano agli utenti di caricare contenuti che rappresentino hate speech, violenza o diffamazione, nonché contenuti dannosi o fake news, oppure contenuti che violino i diritti dei minori, allo stesso modo tutte hanno policy allo scopo di promuovere benessere digitale. Questo, in concreto, comporta che, a fronte della segnalazione di questo tipo di contenuti, le piattaforme provvedono alla rimozione dello stesso o alla chiusura del profilo.

La rete non ha confini geografici, pertanto richiederebbe una regolamentazione internazionale più puntuale, non crede?

Certamente delle regole internazionali rivolte specificamente al web potrebbero aiutare. Si pensi alla direttiva europea sull’e-commerce o al GDPR sulla protezione dei dati personali. Infatti, la Presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, a fine gennaio ha pubblicato le linee guida politiche per il periodo 2019-2024, indicanti gli obiettivi da raggiungere, tra queste si legge che la Commissione sta definendo un percorso verso “un’Europa adatta all’era digitale” e, a tal proposito, si è impegnata nella stesura di norme per i servizi digitali (Digital Services Act), in cui dovrebbero essere emanare, entro la fine di quest’anno, una cornice regolamentare che definisca le responsabilità e gli obblighi dei prestatori di servizi digitali.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

Trova che la legislazione italiana sia aggiornata riguardo a ciò che avviene in rete?

Oltre alla Commissione Segre, che garantisce un’attenzione specifica al tema all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, un ulteriore strumento è rappresentato dalla Delibera n. 157/19/CONS – Regolamento recante disposizione in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech, emanato dall’Agcom e rivolto a fornitori di servizi media audiovisivi e radiofonici di programmi di informazione e intrattenimento, ma anche ai fornitori di piattaforme per la condivisione di video. E’ stato previsto che queste categorie, pur garantendo la libertà di informazione e di espressione, devono contrastare le forme di discriminazione e il linguaggio dell’odio. L’Agcom ha elencato nel dettaglio criteri ed elementi da prendere in considerazione per individuare correttamente le violazioni. E’ inoltre prevista la promozione di campagne di sensibilizzazione, per favorire inclusione e coesione sociale. Se dall’attività di monitoraggio o da eventuali segnalazioni degli utenti, emergono condotte non conformi alle regole, sono previste sanzioni nei confronti dei fornitori media, quindi anche delle piattaforme.

A quale livello occorre assumersi le responsabilità maggiori?

Senz’altro a livello legislativo. Le Autorità giocano un ruolo fondamentale, più che il governo centrale, perché sono in grado di emanare leggi snelle, comprensibili ed efficaci. Inoltre, sono in grado di controllare il rispetto delle norme emanate.La violenza contro le donne nell’infinito inferno del web

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Gianfranco D'Anna
Gianfranco D'Anna
Fondatore e Direttore di zerozeronews.it Editorialista di Italpress. Già Condirettore dei Giornali Radio Rai, Capo Redattore Esteri e inviato di guerra al Tg2, inviato antimafia per Tg1 e Rai Palermo al maxiprocesso a cosa nostra. Ha fatto parte delle redazioni di “Viaggio attorno all’uomo” di Sergio Zavoli ed “Il Fatto” di Enzo Biagi. Vincitore nel 2007 del Premio Saint Vincent di giornalismo per il programma “Pianeta Dimenticato” di Radio1.
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