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Le Commissioni antimafia passano cosa nostra resta

by Antonio Borgia

La lunga storia delle Commissioni parlamentari antimafia ha come premessa il primo approfondito saggio sulle condizioni politiche e amministrative nella Trinacria : “Inchiesta in Sicilia”, suddiviso in due volumi.

Lo pubblicarono nel 1877 due studiosi meridionalisti, i toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, poi diventati deputati della Destra storica, e Sonnino prima Ministro e poi Presidente del Consiglio. Ebbero il “merito” di far conoscere l’esistenza della mafia agli Italiani.

Franchetti coniò, fra l’altro, la famosa definizione “facinorosi della classe media” per i capi cosca, sottolineando la loro condizione di agiatezza in quanto gestori dell’industria della violenza nell’isola.

Nel frattempo era nato l’organismo parlamentare della Commissione antimafia, sempre oggetto di grande attenzione mediatica, soprattutto per i tanti misteri di mafia che ancora aleggiano.

Non sempre, purtroppo, le relazioni finali hanno portato a concreti risultati o riscosso unanime consenso al proprio interno, proprio per la delicatezza del tema e i controversi rapporti con la politica. Le Commissioni antimafia passano cosa nostra resta

Fino agli anni Ottanta dello scorso secolo, ad esempio, si è cercato di attenuare le risultanze del lavoro svolto, anche se talvolta allarmanti.

La necessità di istituire un organismo parlamentare d’inchiesta sulla mafia siciliana si manifestò  a cominciare dal 1874, a seguito dei duri interventi del deputato calabrese Diego Tajani, già Procuratore Generale del Re a Palermo, focalizzati sull’impossibilità di negare l’esistenza di tale organizzazione criminale da lui definita “uno strumento di governo locale”.

Nell’estate 1875 nacque, così, la prima Commissione presieduta da Romualdo Bonfandini con lo scopo di studiare il fenomeno in esame, fra l’altro sempre negato da alcuni deputati siciliani.

L’inchiesta consentì di percepire subito la pericolosità della mafia nonché l’acquisizione di preoccupanti informazioni sulla corruzione politica, non riportate però nella relazione finale tesa, invece, a descrivere una delinquenza poco organizzata, scevra da collegamenti con la classe dirigente, di fatto riconducibile solo a un problema di pubblica sicurezza.

Diversa impostazione ebbe la Commissione istituita nel 1907, sempre sulla mafia siciliana, all’epoca ritenuta la sola da monitorare. Presieduta da Giovanni Lorenzoni,  nell’evidenziare i collegamenti con la politica locale e nazionale e auspicando la loro interruzione, la Commissione segnalò inutilmente anche la pericolosa influenza sull’attività dei vari comuni siciliani.

Nell’Italia repubblicana, come spiega Nicola Tranfaglia nel libro “Mafia, politica e affari”, malgrado avvenimenti clamorosi in Sicilia, la strage di Portella delle Ginestre e la strumentalizzazione della banda di Salvatore Giuliano, nonchè i numerosi omicidi di sindacalisti, e le pressanti richieste alla Camera e al Senato di istituire la Commissione Parlamentare fin dal luglio 1948 ( in particolare l’on. Giuseppe Berti propose di indagare sul banditismo, sui rapporti mafia-politica e le pressioni rivolte alla magistratura per concludere con assoluzioni i processi sui boss), si dovette attendere il febbraio 1963.

Nel frattempo, si ebbero originali dichiarazioni tese a rendere inefficaci le continue sollecitazioni. Il siciliano Mario Scelba, Ministro dell’Interno, segnalò la circoscritta operatività di cosa nostra nell’isola, mentre il Sen. Merlin indicò l’inutilità della Commissione in quanto “la delinquenza in Sicilia deriva dall’ambiente e dal clima, dalla miseria e dalla questione sociale”.Le Commissioni antimafia passano cosa nostra resta

Come ricordato da Carlo Dovizio nell’articolo pubblicato nel numero 3 del 2023 della Rivista sulla Criminalità Organizzata dell’Università degli Studi di Milano, i ripetuti rifiuti erano basati sull’asserita possibilità di circoscrivere la mafia con i soli strumenti della repressione.

Negli anni successivi si ebbe un inversione di tendenza soprattutto da parte dell’opinione pubblica siciliana, grazie alla continua attività del quotidiano “L’Ora” di Palermo, diretto dal calabrese Vittorio Nisticò, oggetto fra l’altro di un attentato mafioso per un’inchiesta sull’ingente accumulazione di denaro delle cosche ed i rapporti con alcuni importanti politici locali, Salvo Lima, Vito Ciancimino ed altri.

Dopo tre lustri di tentativi, all’inizio del 1963 fu istituita una nuova Commissione, mai riunitasi per lo scioglimento anticipato delle Camere, e successivamente quella presieduta dal Senatore Donato Pafundi.

Da quel momento, per molti anni, non vennero però rese note le conclusioni sull’attività svolta, per evitare strumentalizzazioni politico-elettorali.

Nel 1971, finalmente, la Commissione presieduta da Francesco Cattanei iniziò invece a pubblicare l’esito dei precedenti lavori, rappresentando l’impotenza degli Organi dello Stato verso la mafia che imperversava, con la violenza, anche grazie ai collegamenti con i pubblici poteri.Le Commissioni antimafia passano cosa nostra resta

I Commissari, nell’occasione, segnalarono la sconcertante verità sull’estensione della mafia nei grandi centri urbani nazionali del centro e nord Italia.

Nicola Tranfaglia, nel libro già citato, ricorda, fra l’altro, che la relazione del 1971 aveva accertato molteplici situazioni riguardanti:

  • la facilità degli enti pubblici della Sicilia occidentale ad assumere dirigenti e impiegati senza concorso. Tali procedure, come confermato nella relazione del 1976, consentirono un diffuso inquinamento mafioso nei nuovi Uffici. Addirittura, nel periodo 1946-1963, il 90per cento delle 8.900 assunzioni effettuate avvenne per chiamata diretta o su raccomandazione, talvolta senza titoli di studio o con condanne penali.

  • le deviazioni nella lotta politica e nella gestione amministrativa ed economica degli Uffici nonché le gravi irregolarità con cui la Pubblica Amministrazione interveniva   nell’importante settore  dei mercati all’ingrosso, permeato dal fenomeno mafioso;

  • l’influenza mafiosa nel settore del credito bancario, con la concessione di finanziamenti senza garanzie, anche a nullatenenti;

  • la scorretta gestione dei processi di mafia da parte di molti giudici, con la conseguente abbondanza di assoluzioni per insufficienza di prove.

Nella VI Legislatura, nel 1976, la Commissione presieduta da Luigi Carraro elaborò  ben tre relazioni conclusive, una della maggioranza e due della minoranza, con verità divergenti, evidente segnale di forte tensione politica.

Nella relazione di maggioranza, con una sorprendente quanto errata previsione  (di lì a poco, infatti, i corleonesi avrebbero scatenato la guerra di mafia per controllare delitti e profitti di cosa nostra, con tragiche e spaventose conseguenze), venne scritto che tendeva ad attenuarsi il fenomeno dell’omertà e si andava “estendendo a tutti gli strati della popolazione un netto atteggiamento di rifiuto della prevaricazione mafiosa…Tende per converso ad allentarsi (se non a scomparire) la presa che per tanto tempo la mafia ha avuto sull’apparato del potere formale”.

Una delle due relazioni di minoranza, invece, firmata da otto deputati, fra i quali i siciliani Pio La Torre e Cesare Terranova, entrambi uccisi da cosa nostra pochi anni dopo, evidenziò come fossero stati tralasciati i rapporti della mafia con la politica e le istituzioni, venuti alla luce in seguito, soprattutto grazie a Giovanni Falcone e il pool antimafia istituito dal Consigliere Istruttore di Palermo Rocco Chinnici.

Per leggere quali fossero stati gli effettivi rapporti fra mafia e politica, come ricordato opportunamente da Pierpaolo Romani nel libro “Mafia e politica locale”, si dovette attendere la Commissione della XI Legislatura , Presieduta da Luciano Violante e il 1994, quando a maggioranza e per la prima volta nella storia repubblicana, gli intrecci mafia politica vennero affrontati seriamente evidenziando, fra l’altro, come lo Stato centrale si fosse avvalso, in passato, delle cosche mafiose, divenute parte di un blocco di potere, per cercare di contenere le spinte autonomistiche e isolazioniste che erano emerse in terra di Sicilia.

Da tale data, le varie Commissioni che si sono succedute si sono dimostrate concrete e obiettive tanto che, con la relazione del 2008, approvata all’unanimità, l’organismo trattò della quasi “sconosciuta” ‘ndrangheta calabrese e della sua avvenuta estensione nelle regioni settentrionali del Paese, scatenando le risposte polemiche di tanti politici di rango che negarono l’esistenza della mafie nel Nord Italia, dimostrando di ignorare o sottovalutando ciò che stava effettivamente avvenendo.Le Commissioni antimafia passano cosa nostra resta

 

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Antonio Borgia
Antonio Borgia
Generale in pensione della Guardia di Finanza, ha prestato servizio in Sicilia dal 1979 al 1996, nel pieno della guerra di mafia e delle stragi di cosa nostra. Ha collaborato con diversi magistrati a Trapani e Palermo quali Dino Petralia, Ottavio Sferlazza, Carlo Palermo ed i Pm della DDA di Palermo allora guidata dal Procuratore Giancarlo Caselli, in particolare Alfonso Sabella. Attualmente é editorialista della Gazzetta di Asti.
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