Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta. Sentimenti passioni amori e disamori. Storie di vita. Vicende vissute
by Valeria D’Onofrio
Il Ponte Morandi non è crollato un anno fa. A Napoli i giovani non hanno iniziato a prendere a sassate un ambulante ieri. A Cosenza una donna non è stata seviziata da 20 uomini quando lo ha scoperto la Polizia…
Certe tragedie non si consumano in un giorno preciso, sono scritte in un calendario perenne che riconosce una sola stagione: l’incultura.
L’incultura è un’erosione lenta dei pilastri di un cavalcavia, come di quelli dell’umanità. È quell’abitudine, sempre più capillarmente e profondamente diffusa, a concepire la vita come un lungo, interminabile, avido “adesso”.
Un presente distorto che non colleghiamo a nessun passato. Che non proiettiamo in nessun futuro.
Monco di radici, come quegli alberi di Natale tagliati alla base del tronco, destinati a soddisfare il bisogno del momento, prima di essere cestinati alla fine delle Feste. E noi siamo come quegli alberi lì, pronti a morire con il nostro “adesso” perenne.
Oggi, a distanza di un anno dal crollo, siamo tutti ancora (ma molto meno) indignati, costernati, e sempre a caccia di un colpevole credibile, pronto uso, che è solo l’ultimo anello di una catena (dis)umana.
Dell’iceberg vediamo solo quel che affiora, dimenticandoci che la punta è la parte più piccola e insignificante di ciò contro cui ci infrangeremo. Un pilone non cede all’improvviso, così come non è un raptus che ci fa diventare razzisti, violenti, cafoni.
Crolli, aggressioni, intolleranza, sfruttamento… sono storie lunghe, che vengono da lontano, che sono state concimate quotidianamente dalla famiglia, dalla politica, con l’incultura dell’adesso, quella che non ci insegna a saper aspettare, che non ci induce a programmare, che non ci illumina sulle conseguenze delle nostre azioni. Adesso, adesso, adesso…e poi? Come sarà il poi di questo adesso? “Ci penserò domani”.
Ed eccolo il domani! Sta a Genova, nel banchetto dell’ambulante catanese, o in quelle bagnarole che affondano nelle acque che ci litighiamo a colpi di una territorialità di convenienza.
Il domani è in tutte le volte che abbiamo pensato che il progresso fosse solo quello tecnologico e non anche (e soprattutto) culturale;
che il latino e il greco fossero ‘lingue morte’, mentre l’inglese e il russo, vive.
Quando abbiamo pensato che rinunciare al verde a vantaggio di alveari abitabili, ci avrebbe reso tutti cittadini di un mondo moderno.
Il domani è quando chiediamo “come stai?” per poter dire solo come stiamo noi.
Quando scavalchiamo una coda perché non abbiamo voglia di aspettare.
Quando consentiamo che i diritti degli altri vengano calpestati, negati, solo perché non ci toccano personalmente.
Quando non sappiamo riconoscere e proteggere i deboli. Il nostro domani ha le radici lì, nell’incultura quotidiana.
Ossia, nell’incapacità di coltivare, di prenderci cura del nostro Futuro, provando ad immaginarlo e anche a correggerlo, prima che diventi Presente. E che in un attimo è già Passato.
Senza retorica e senza dilungarsi in analisi complesse, basta sintetizzare quanto scriveva Antonio Gramsci in Quaderni dal carcere: “Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri (…). Cultura è la stessa cosa che la filosofia… ciascuno di noi è un poco filosofo: lo è tanto più quanto più è uomo… Cultura, filosofia, umanità sono termini che si riducono l’uno nell’altro (…). Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque lo voglia. Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire; ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla.”