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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
Tanti gli anniversari letterari nell’anno che sta per finire, alcuni celebrati fino all’ossessione, altri meno. Quello dei 50 anni della morte di Ennio Flaiano meritava maggiore considerazione, ma il giornalista scrittore sceneggiatore pescarese non è mai stato compreso e continua a non esserlo.
Per fortuna di lui si sono ricordati Renato Minore e Francesca Pansa autori di “Ennio l’alieno” edito da Mondadori. 
Un libro, “Ennio l’alieno”, che parte dalla sua biografia per poi farci scoprire l’uomo nella sua vita privata e in quella creativa. Sfatando luoghi comuni e giudizi sommari su un autore tra i più citati e meno letti.
Per i più Flaiano è stato un formidabile battutista, autore di fulminanti aforismi da citare nei salotti e sui social (salvo poi accorgersi che le freddure a lui attribuite non sono sue) e osservatore disincantato della società e dei costumi del nostro Paese. Ed è vero. Ma è pure vero che Flaiano non è stato solo questo, ma uno scrittore di primo piano nel nostro Novecento, tutt’altro che “minore”, come lui stesso immaginava potesse essere definito in una futura antologia che l’avrebbe ricordato per avere scritto “Tempo d’ammazzare” e non “Tempo d’uccidere”, il romanzo che gli valse lo Strega alla prima edizione del ’47. Uno scritture di primo piano malgrado la sua vocazione non fosse la narrativa, ma il frammento, la prosa diaristica e giornalistica.

D’altra parte Flaiano era consapevole di quanto poco fosse capito e che su di lui e sulla sua scrittura molti erano gli equivoci. In “Frasario essenziale per passare inosservati in società” vi è una pagina, in questo senso illuminante, sulla sera in cui ricevette lo Strega: “La mortificazione del successo – e la certezza di non esservi tagliato – la provai durante la pubblica premiazione, in un albergo romano, del mio primo e unico romanzo, ‘Tempo di uccidere’ …Forse la sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso…Avevo in tasca un assegno (duecentomila lire) e la certezza che non mi apparteneva”. Quel romanzo, che racconta lo smarrimento di un ufficiale in Etiopia che uccide accidentalmente una donna indigena con cui era stato in intimità, veniva premiato per “un malinteso”: nessuno ne aveva colto la cifra surreale ed esistenzialista. Ma anche gli altri suoi libri, pubblicati più postumi che in vita, meritano di essere riletti cercandovi, oltre l’ironia dissacratoria e amara, la carica allusiva tante volte sfuggita. A cominciare da “Un marziano a Roma” nel quale vi è più di un riflesso autobiografico.
Un uomo cinico, Flaiano? Poteva apparirlo agli sguardi superficiali, ma non lo era: alieno ai sentimentalismi, l’inclinazione alla malinconia, il pessimismo e una latente tenerezza trapelavano dai suoi scritti. D’altronde la vita l’aveva messo alla prova con la malattia della figlia Luisa, chiamata affettuosamente Lelè. A lei, quando ancora non aveva un anno, aveva scritto una commossa lettera il giorno della caduta del regime fascista. Che fu oggetto di una sua brillante satira in un articolo pubblicato su “Rivoluzione liberale” in cui la sua evoluzione è rappresentata dai cappelli indossati dal duce. Quanto a Mussolini, lo descrisse come un cantante d’opera: “Fu il superuomo dei poveri, più figlio di Verdi e Leoncavallo che di Nietzsche o di Hegel: applaudito per oratore ed era soltanto un tenore”.
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Saggista e critico letterario