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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
A un secolo e mezzo dalla morte di Alessandro Manzoni, nel celebrarne l’anniversario, ci si pongono due domande: sono ancora attuali I promessi sposi? Vale tuttora la pena studiarli a scuola?
Innanzitutto una premessa. Il romanzo più noto in Italia ha da sempre diviso, fin dal suo apparire: esaltato da Vincenzo Monti (che, poco prima di morire, scriveva a Manzoni: “Ho letto la vostra Novella, e finita la lettura mi sono sentito meglio nel cuore..”) e da Vincenzo Gioberti (“l’opera più grande e stupenda che siasi pubblicata in Italia dalla Divina Commedia e dal Furioso in poi”), bocciato senza appelli da Ugo Betti che definì Manzoni “bestiaccia, nemico d’Italia, fra Cipolla della letteratura…” e da Luigi Settembrini (“I promessi sposi è il libro della Reazione…Scrivere e pubblicare un libro che loda preti e frati e consiglia pazienza, sottomissione, perdono…significa…consigliare la sommissione alla servitù e la negazione della patria e di ogni generoso sentimento civile”).
Sui Promessi sposi si trovarono su sponde diverse i due maggiori critici letterari italiani: Francesco De Sanctis lo considerò un capolavoro che conciliava il reale con l’ideale, Benedetto Croce ne mise in luce i limiti (salvo poi ricredersene) in quanto, per eccesso di oratoria, opera di letteratura e non di poesia.
Il romanzo passò poi sotto le forche caudine dei critici marxisti. Impietosa la stroncatura di Antonio Gramsci per la rappresentazione paternalistica degli umili da parte dell’”aristocratico” Manzoni (“i popolani, per Manzoni, non hanno ‘vita interiore’, non hanno personalità morale profonda; essi sono ‘animali’, e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali”), cui fa seguito l’altrettanto aspro giudizio di Alberto Moravia, per il quale l’autore è simile al “buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, ma che non dimentica un sol momento che è il padrone”.
Posizioni severe, le loro, che, nell’ambito dell’estetica letteraria filo marxista, sono state mitigate da Alberto Asor Rosa, rivisitate e corrette da Natalino Sapegno e, soprattutto, da Italo Calvino. Che critico letterario non era ma scrittore e che con la sensibilità dello scrittore colse l’equilibrio del romanzo nel quale è focale il rapporto di forza tra il potere sociale, il falso potere spirituale e il vero potere spirituale.
Il merito maggiore dell’intelligente lettura di Calvino è di avere sottolineato il realismo del romanzo e la sua visione tutt’altro che edulcorata della società superando l’interpretazione prevalente per la quale la Grazia ha, in quelle pagine, una funzione salvifica e risolutrice.
Ed è proprio da ciò che bisogna partire per riconoscerne l’attualità: dalla constatazione che I promessi sposi non sono un romanzo banalmente consolatorio e che anzi offrono il quadro di una realtà sociale complessa e difficile inasprita da prepotenze e ingiustizie.
Che non si tratti di un romanzo consolatorio lo attesta pure un altro grande scrittore del ‘900, Carlo Emilio Gadda che col suo originalissimo stile scrive: “Quando Don Alessandro vorrà rinascere e farci dono di una nuova edizione del suo poema gli diremo: Don Alessandro, per carità, non fotografate così spietatamente le magagne di casa, non interpretate così acutamente ciò che poi si coagula nella retorica del giorno”.
Non tanto diversamente la pensava Leonardo Sciascia. Per nulla romanzo della provvidenza, I promessi sposi per Sciascia sono “un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società di ieri e di oggi” e, per lo scrittore di Racalmuto, con Manzoni l’illuminismo non si era convertito nel cattolicesimo, come è stato scritto, ma, al contrario, “il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo”. Un romanzo attualissimo, I promessi sposi, secondo Sciascia, in cui sono presenti i mali della società di allora, di oggi e di domani.
Se si privilegia questa chiave di lettura, perché non studiare I promessi sposi nelle scuole (s’intende con metodo, gradualità, accortezza critica e didattica sgravando il romanzo di quella “sacralità” che lo rende lontano dai ragazzi e dal loro mondo)?
Se ascoltassimo i consigli di scrittori oggi alla ribalta e domani presto dimenticati di espellere i classici dalle scuole, queste si impoverirebbero ulteriormente e crescerebbero i divari – già netti – tra i ceti sociali, tra chi (nei ceti più elevati) leggerà Manzoni, Verga, Dostoevskij e chi (nei ceti meno fortunati) non leggerà o leggerà gli effimeri autori di un effimero mercato editoriale.
E magari, per studiare come si deve Manzoni, occorrerà l’aiuto di una “Bustina di Minerva” di Umberto Eco: quella in cui l’autore de Il nome della rosa – altro estimatore dello scrittore milanese e dei Promessi sposi – osservava nelle dettagliate descrizioni paesaggistiche del suo primo capitolo l’utilizzo delle tecniche più moderne di ripresa cinematografica.