Da Gibilterra al Bosforo, dal canale di Suez al Sahel, la sicurezza del Mediterraneo e del nord Africa è inevitabilmente condizionata dall’instabilità della Libia.
Ostaggio dell’implosione infinita del regime di Gheddafi, la ex Jamahiriya ha inoltre subito tutti i contraccolpi del fallimento delle cosiddette Primavere arabe.
“Dieci anni dopo il miraggio delle “Primavere arabe” il dibattito sul futuro del Mediterraneo è ancora aperto tra disillusioni, fallimenti e qualche flebile speranza per il futuro” osserva Michela Mercuri, analista di politica estera, scrittrice, editorialista ed esperta di Nord Africa e Medio Oriente.

Perché la Libia rimane il baricentro dell’instabilità del mediterraneo nord africano?
Delle rivolte libiche restano solo rovine. Un Paese controllato da un complesso mosaico di milizie, diviso tra, almeno, due fazioni: il Governo di Tripoli (Gna) con a capo Fayez al-Sarraj, e le milizie del generale Khalifa Haftar riunite nell’Esercito nazionale libico (Lna). Il 4 aprile del 2019 le due parti hanno dato il via a una guerra che si è parzialmente conclusa solo nel settembre di quest’anno, causando centinaia di morti. L’ultima delusione su un possibile processo di stabilizzazione in Libia è giunto dal fallimento dei colloqui di Tunisi partiti lo scorso 9 novembre. L’obiettivo era quello di iniziare i lavori per un nuovo processo politico che si è però arenato sull’accordo sui nomi dei candidati, in particolare per colui che dovrà ricoprire la carica di primo ministro del Gna, evidenziando tutte le spaccature presenti all’interno del Paese. In aggiunta a questo, la presenza di attori esterni (come Russia e Turchia) che hanno basi in territorio libico costituisce un’ulteriore minaccia alla pace. Fintanto che permarrà la presenza di attori esterni sul terreno non si riuscirà a trovare una soluzione per la stabilizzazione della Libia.

Dopo gli ultimi sviluppi fra Roma e Bengasi si prospetta una premiership libica filo Haftar?
Haftar, dopo la sconfitta nella guerra contro Serraj, sembrava oramai fuori dai giochi e invece è riuscito a tornare a essere uno dei protagonisti del futuro del Paese. Pochi mesi fa con una “mossa a sorpresa” ha concordato con il vice premier Ahmed Maitig la ripresa della produzione di petrolio. Una boccata di ossigeno per i libici, che ha portato acqua al suo mulino. In secondo luogo è riuscito a tenere sulle spine l’Italia, e in parte anche la comunità internazionale, con il sequestro dei 18 pescatori di Mazzara del Vallo. Un “sequestro politico” che, al di là della possibile mediazione di qualche Paese vicino al generale, ha “costretto” l’Italia a riconoscerne l’autorità. Una vittoria che riporta il generale al centro della scena politica libica e lo rende uno degli protagonisti più influenti. Haftar è un uomo che appartiene al mondo militare ma in questo caso, che piaccia o meno, ha dimostrato doti di “stratega politico”. E’ probabile che miri a un ruolo di questo tipo nei futuri assetti libici. Se vi riuscirà dovrà ringraziare anche l’Italia
Si può parlare di pieno rientro italiano nel contesto della situazione libica?
L’Italia con l’incontro di Bengasi non è rientrata nel teatro libico. O, se lo ha fatto, lo ha fatto da una posizione di inferiorità, necessaria, però, a riportare a casa i nostri pescatori, che ritengo la cosa più importante. Ciò detto, aver riallacciato un dialogo con Haftar, non porterà a l’Italia a un importante ruolo di mediazione tra le parti. Al massimo le potrebbe permettere di tornare a ricoprire un ruolo, seppure marginale, nelle possibili future trattative.

Trattative con chi?
L’Italia ha fin qui avuto una politica molto altalenante che non ha certo giovato alla nostra immagine dentro e fuori la Libia. Prima abbiamo permesso alla Turchia di limitare il nostro peso nell’ovest, cercando solo ora di recuperare un dialogo con Serraj, che recentemente si è recato a Roma. Prima ancora eravamo vicini a Serraj ma con un canale aperto con Haftar, che abbiamo invitato alla Conferenza di Palermo con tutti gli onori diun capo di Stato. Poi, negli ultimi mesi, abbiamo allentato (per non dire interrotto) ogni contatto col generale. Con le conseguenze che conosciamo. Prima di pensare di rientrare in Libia dobbiamo capire. A) Come farlo; B) Che ruolo vogliamo giocare e con chi; C) Che strategia ben definita avere. Senza ver ben chiari questi elementi forse sarebbe meglio fermarsi un attimo a riflettere per non commettere errori che, stavolta, potrebbero essere irreparabili.

Ruolo di Stati uniti, Russia, Francia,Turchia ed Egitto?
Uno dei problemi della Libia è la presenza di attori esterni che hanno investito soldi ed armi nel Paese e non intendono andarsene. Serraj è appoggiato dal Qatar e dalla Turchia che si è letteralmente sostituita a Serraj nella gestione del lungo conflitto che ha “insanguinato” il Paese per ben 17 mesi, inviando un vero e proprio esercito composto da migliaia di combattenti e armi sofisticate. A sostegno delle milizie di Haftar vi sono numerosi sponsor regionali e internazionali tra cui Egitto, Francia, Emirati arabi che lo riforniscono di armi. C’è poi Mosca, che ha inviato sul terreno migliaia di mercenari del gruppo Wagner e ha collocato nella base di al-Jufra una dozzina di Mig-29 e Su-24. La Turchia ha guadagnato una buona parte del porto di Misurata, per 99 anni, da convertire, forse, in una base navale e l’utilizzo della base aerea di al-Watya per l’aviazione militare. Arabia Saudita ed Egitto sono tutt’ora uniti dall’ostilità nei confronti della Fratellanza Musulmana supportata da Qatar e Turchia. Una contrapposizione che potrebbe essere rinvigorita dal recente accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Tutto questo potrebbe vedere nelle Libia un terreno di scontro. Nel frattempo la Francia ha firmato accordi con l’Egitto per la vendita di armi, alcune delle quali potrebbero finire nell’ex Jamahiriya. Come se non bastasse, di recente, l’autorità petrolifera libica (Noc), grazie all’intercessione francese, ha discusso con la Total un aumento della produzione di greggio e dello sviluppo di progetti di cooperazione in vari settori. In questo teatro piuttosto cristallizzato sarà interessante vedere quale potrebbe essere il ruolo americano e come la nuova amministrazione Biden farà sentire la sua presenza nell’area.