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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Solo chi perde la libertà impara a conoscerla davvero. La prigionia può essere una scuola di crescita conoscitiva. Ma a patto che, se si perde la libertà, o non la si é mai sperimentata perché si è nati in prigione, si abbia la consapevolezza della propria prigionia. E’ almeno dal mito platonico della caverna a oggi che i filosofi provano a metterci in guardia da quella forma di povertà estrema che consiste nel non sapere neppure di essere poveri.
Una condizione di illibertà di cui raramente siamo consapevoli è costituita dalla gabbia del maschilismo. Almeno se, per maschilismo, intendiamo un sistema culturale, istituzionale, sociale, politico, economico in cui – mediamente – le donne si trovano in situazioni oggettive di svantaggio, di subordinazione, rispetto agli uomini.
Le pareti di questa gabbia sono almeno quattro. Innanzitutto un fattore biologico: la donna “paga” il privilegio di poter concepire e mettere al mondo figli con la riduzione della prestanza fisica nei mesi della gravidanza, prima del parto, e dell’allattamento dopo.
Questo fattore fisiologico è stato accentuato da scelte socio-economiche: la divisione del lavoro fra donne, dedite alla cura dell’abitazione e dei piccoli, e maschi, dediti alla caccia, alla guerra, ai lavori extra-domestici come il commercio. Tutt’oggi si registra una disparità di opportunità lavorative fra donne e uomini: lo slogan “Dobbiamo lavorare il doppio per contare la metà” è probabilmente eccessivo, ma si rifà in concreto alle statistiche secondo cui, a parità di mansioni, le donne guadagnano circa un terzo in meno dei colleghi uomini. 
Un terzo ordine di vincoli della libertà muliebre appartiene all’ordine giuridico-istituzionale: dalle città greche agli Stati nazionali contemporanei è stato necessario il trascorrere di circa 25 secoli affinché il diritto di votare venisse esteso dai maschi alle donne. In Italia, come è noto, si è dovuto attendere il 1946, ma ciò non ha impedito né di mantenere sino agli anni Settanta il diritto del marito di controllare la posta e di ‘correggere’ con le maniere forti i difetti della moglie (e, nel caso dell’assassinio per “motivi d’onore”, di godere delle attenuanti previste dal codice penale) né di escludere le laureate in giurisprudenza dalla carriera in magistratura.
A suggello di queste pareti ingabbianti va citata almeno la quarta, concernente gli aspetti simbolico-culturali. In moltissime culture le invettive contro la donna in quanto donna sono luoghi comuni. Non solo in ambito cristiano (dove, ad esempio, Sant’Antonino, Arcivescovo di Firenze nel XV secolo, definiva la donna “avido animale, bestiale baratro, concupiscenza della carne, falsa fedeltà, gola garrula, caos di bugie, veleno accattivante, prima peccatrice, quietis quassatio etc”), ma anche in ambienti laici progressisti (per tutti Proudhon nel XIX secolo: “La donna è una specie di termine medio tra l’uomo e il resto del regno animale”).
Se questa, rapidamente sintetizzata, è la gabbia del maschilismo, chi l’ha costruita e la mantiene in piedi? Certamente gli uomini, ma anche le donne. Senza l’inconsapevolezza di molte madri, sorelle, amanti, mogli, gli uomini non si abituerebbero sin da bambini a ritenersi il fine e il senso della vita delle donne.
Chi subisce i danni di questa gabbia? Certamente le donne, ma anche gli uomini. Riprodurre il modello patriarcale ereditato significa condannarsi a vivere solo un tipo di maschilità: l’uomo che non deve provare emozioni; non deve manifestare sentimenti; non deve coltivare la gentilezza; “non deve chiedere mai” (soprattutto ‘scusa’); non deve svolgere lavori di cura dei bimbi, dei malati, degli anziani…
La gabbia del patriarcato, insomma, impoverisce e riduce la ricchezza potenziale degli uomini come delle donne. Spezzarne le pareti oppressive potrebbe aprire spazi di libertà per l’intero genere umano in un cammino di comprensione reciproca, di dialettica nonviolenta e di cooperazione costruttiva.
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Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo