Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta. Sentimenti passioni amori e disamori. Storie di vita e vicende vissute
by Augusto Cavadi
Confesso che, prima di ricevere l’invito ad aggregarmi ad un gruppo di amici in partenza per l’Uzbekistan, sapevo soltanto che si trattava di uno Stato dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quando, per orientarmi, mi hanno informato che è celebre per la città di Samarcanda, ho cercato qualche traccia nella memoria, senza tuttavia andare molto al di là della canzone di Roberto Vecchioni. Dunque, dallo sbarco all’aeroporto di Tashkent, la capitale, a Samarcanda, passando per città di bellezza accecante come Khiva, Bukhara, Shahrisabaz , è stata tutta una continua scoperta.
Per me, siciliano del XXI secolo, alcuni aspetti sono risultati sorprendenti. Innanzi tutto il lindore degli spazi pubblici. Città con milioni di abitanti – dunque molto più grandi di Palermo o di Catania – colpivano per la pulizia delle strade, delle ville, delle stazioni ferroviarie e metropolitane. Dei cumuli di rifiuti e delle discariche abusive che fanno parte del panorama abituale di quasi l’intera isola, non c’era traccia.
Perfino i mercati ortofrutticoli erano impregnati di odori gradevoli, quasi profumati: un altro mondo rispetto alla sporcizia quasi sfacciata – giorno e notte, senza interruzione – dei mercati storici e rionali di Palermo. La bottiglia di plastica abbandonata era davvero un’eccezione che si faceva notare. E ciò per il combinato disposto di due fattori, che mi era capitato per altro di notare in altre regioni dell’Asia, come la Cina: lo Stato assume con larghezza spazzini e spazzine, anche sotto forma di salari parziali per tempi di lavoro parziali, ma affida a ciascuno di loro una zona ben delimitata della cui nettezza sono severamente responsabili.
Stato e aziende private, poi, pagano la plastica raccolta volontariamente dai cittadini prevalentemente, ma non esclusivamente, nullatenenti. In molti supermercati tedeschi ho osservato che si tratta ormai di una prassi consolidata e diffusa tra famiglie e studenti.
Non meno sorprendente la cortesia come tratto abituale degli abitanti. Una guida locale ci ha, gentilmente, suggerito di parlare a voce bassa per strada e nei locali pubblici, di salutare entrando in un negozio e di ringraziare uscendone. In botteghe e mercati si contratta come in tutto il mondo, ma in un clima di rispetto e direi con una sorta di distanza ironica nei confronti della contrattazione. La sequenza tipica è stata: richiesta del prezzo di un oggetto – risposta contenente un prezzo elevato (rispetto al tenore di vita locale, non agli standard europei) – dichiarazione del cliente di non essere intenzionato a spendere quella cifra – richiesta da parte del venditore di quale cifra si sarebbe disposti a pagare – risposta dell’acquirente con l’indicazione della cifra ritenuta equa – accettazione della cifra da parte del negoziante o sua controproposta a metà strada – chiusura, in senso positivo o più raramente negativo, della negoziazione.
Ho preso poche volte la metropolitana, ma in quelle poche volte c’è stato sempre qualcuno più giovane che, vedendomi in piedi, si è alzato prontamente per offrirmi il posto: tenuto conto che non sono né molto anziano né malandato, uno spettacolo davvero insolito nei mezzi di trasporto pubblici italiani.
Durante gli spostamenti tra una città all’altra, in zone di varia bellezza naturale anche quando desertiche, non si può non notare una povertà che in Italia si sarebbe potuta riscontrare solo fino al boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso. Uomini, donne, ragazzini e ragazzine, attendono ai lavori pesanti e/o umili tipici dell’economia agricola: contadini con le schiene piegate in due verso la zolla che zappano; bambini e bambine anche meno che decenni a custodia di greggi; donne che, ai bordi di strade quasi deserte, espongono angurie e meloni alla vista di improbabili acquirenti. E persone di ogni età e di ogni sesso che cavalcano, pazientemente, dei piccoli asinelli ancora più pazienti dei loro cavalcanti. Il quadro complessivo non sa di miseria, ma di dignitosa povertà.
Il senso di compassione, che – se non si è del tutto disumanizzati – queste immagini suggeriscono, viene smussato da una constatazione e da una riflessione.
La constatazione, per me spiazzante ogni volta come se fosse la prima volta, come se non l’avessi già realizzata in Brasile e in altri Paesi dell’America Latina, è che questa gente non evita il tuo sguardo, ma lo cerca. Con un saluto della mano lo attira e, appena ritiene di essere riuscito a incrociarlo, ti sorride.
Non sto parlando soltanto di mendicanti che incontri de visu passeggiando, della cui sincerità espressiva potresti maliziosamente dubitare: no, parlo di anziani e di bambine, di madri di famiglia e di giovanotti sudati per la fatica del lavoro, che ti vedono passare velocemente su un’automobile o su un bus e agitano le braccia in segno di festoso benvenuto. Non sembrano meno allegri di noi occidentali metropolitani, affannosamente implicati in un vortice di spostamenti continui di cui non sempre conosciamo la méta ultima.
La riflessione è, poi, relativa alle sofferenze dei viventi non umani. Vitellini e caprette – che brucano rari cespugli sparsi nella steppa – mostrano una complessione debole, talora emaciata: nulla di simile agli animali ben pasciuti delle nostre pubblicità televisive. Alle stazioni di servizio non è infrequente incontrare mezzi di trasporto stipati di bovini o ovini.
Eppure…eppure la sorte di queste bestioline – per quanto poco privilegiata – è comunque meno orribile della vita di milioni, di miliardi di consimili, concepiti, partoriti, allevati e uccisi non in aree economicamente depresse del pianeta, ma all’interno di infernali industrie della carne.
Davvero la scala delle sofferenze è sempre un po’ più lunga di quanto si sospetti (o si speri): quando ritieni di aver toccato l’ultimo gradino, scopri che ce ne sono di ancora più bassi. E se il progresso sociale ed economico comporta la riduzione del tasso di sofferenza per alcune specie animali (suppongo che i piccoli asinelli costretti a trasportare carrettini stracolmi di erbe o di frutta, insieme a uno o due passeggeri, siano – grazie alla diffusione di biciclette, motorette e camioncini – meno che in passato e destinati a scomparire nel prossimo futuro), per altre specie ne comporta, invece, un’intensificazione qualitativa e quantitativa.
Questa dialettica tragica (ma perché escludere che dei mutamenti etico-antropologici consentano di considerare in avvenire il consumo della carne alla stessa stregua del cannibalismo oggi? E perché escludere che ciò che oggi è già stato realizzato a titolo sperimentale – la riproduzione in laboratorio di cellule e tessuti della carne animale – non possa diventare una produzione industriale su scala mondiale?) è perpetuata da un’esigenza psicologico-culturale, ben nota nel Meridione italiano, che ho ritrovato in Uzbekistan come in altri sistemi sociali (l’India e la Cina): il bisogno di sprecare il cibo.
In piccoli villaggi rurali in cui si festeggia un matrimonio, come nei grandi hotel di lusso, se non proprio il gusto di gettar via porzioni enormi di pietanze, vige la sovrana indifferenza verso questa consuetudine. Anche da questo punto di vista, però, mi pare di intravedere qualche spiraglio di luce per il futuro. Attualmente, infatti, noto che a sprecare con più disinvoltura sono fasce sociali che non hanno raggiunto livelli sufficienti di soddisfazione alimentare; in soggetti che, al contrario, vivono abitualmente nel benessere, mi pare di registrare – per esempio ai tavoli dei ristoranti in cui gli alimenti sono disposizione dei clienti col sistema del buffet – una certa attenzione nell’evitare di accaparrarsi cibo nel proprio piatto molto al di sopra di quanto si preveda di consumare effettivamente.
Qualche sperimento pionieristico, che avevo conosciuto a Milano, si va diffondendo piano piano anche a Palermo: ristoranti in cui, dietro versamento di una somma determinata, puoi mangiare a volontà tutto ciò che ti aggrada, ma a patto di pagare un supplemento proporzionale a ciò che rimane – ormai inservibile – sul tuo piatto. Si tratta di piccoli passi, poco più che simbolici: ma anche i gesti simbolici hanno una propria efficacia nel tempo.
La sensibilità ecologica – che recenti manifestazioni mondiali hanno meritoriamente rilanciato – può evitare la deriva retorica e radicarsi solo a due condizioni: che suggerisca mutamenti radicali nel proprio stile di vita quotidiano e che non venga disgiunta dalla sensibilità etica per i miliardi di esseri umani che vivono di stenti e che attendono ormai dall’era delle caverne l’equa distribuzione del pane e delle rose.
L’aquilone volteggiante sull’intero pianeta del reportage dall’Uzbekistan di Augusto Cavadi, da nuovamente appuntamento a Samarcanda al mito, alla filosofia e alla storia che sono sgorgate, prima e dopo Marco Polo, dalla via della seta, l’antica rotta commerciale che per secoli ha collegato il Mediterraneo e l’Asia, in particolare la Cina. Inconsciamente infatti il filo conduttore del reportage ripercorre i temi esistenziali della vita e della morte della leggenda sulla quale si sviluppano, anzi galoppano, le note e le parole della celebre Samarcanda di Roberto Vecchioni. Riascoltare per credere…