by Giuseppe Lauricella *
Giorni fa, su questa stessa testata, Gianfranco D’Anna, in ordine all’attesa riforma del CSM, riportava e spiegava la proposta avanzata da “magistrati di base”, ovvero – si presume – di magistrati che non entrano nelle dinamiche emerse in questi ultimi tempi, ma che sperano che il sistema cambi e, soprattutto, migliori sul piano della indipendenza e dell’autonomia della magistratura.

Indipendenza ed autonomia sempre rivendicate ma ultimamente messe in crisi, mortificate da un uso distorto ed equivoco, che confligge con i principi stessi.
La proposta che viene avanzata informalmente dai magistrati di base prevede – in modo opportuno – l’incompatibilità tra il ruolo di magistrato e la politica, nel senso che se un magistrato decide di candidarsi alle elezioni e di svolgere un ruolo nella politica (a qualsiasi livello), non può, finito il mandato “politico”, tornare a svolgere la funzione di magistrato.
Un principio che afferma l’indipendenza della magistratura che vale sia quando il magistrato svolge la sua funzione giudicante o requirente, sia quando decide di dedicarsi alla politica: ha fatto una scelta, un cambio di funzione, passando dal potere giudiziario al potere – per esempio – legislativo o, addirittura, esecutivo.
Nel passaggio da un potere all’altro non può ritenersi che il magistrato operi in una “bolla asettica”, ma dovrà, inevitabilmente, “contaminarsi” (nel senso nobile del termine) con la politica, con i partiti, con le dinamiche e le scelte di parte.
Ho una profonda ed alta considerazione della funzione e del ruolo del magistrato come ce l’ho per la politica.
Dunque, condivido l’idea di quei magistrati che affermano che un magistrato non debba entrare in politica. Ma se decide di entrarvi, non sembra opportuno che poi torni in modo disinvolto a fare il magistrato.
Quanto all’aspetto procedurale ed elettorale della scelta dei componenti del CSM, la proposta prevede la riduzione del numero dei componenti eletti direttamente dalla magistratura: per cui dei 2/3 “togati”, che oggi sono eletti dalla magistratura, metà (ovvero 8) sarebbero eletti sempre dai magistrati e l’altra metà di magistrati (8) verrebbe eletta, in parte (4) dal Parlamento in seduta comune e per il resto (4) nominati dal Presidente della Repubblica, scegliendoli comunque tra i magistrati: questi ultimi sarebbero togati eletti da non togati.
Ferma restando la presenza del Presidente della Repubblica (che presiede l’organo) e del Primo Presidente e del Procuratore generale della Corte di cassazione, verrebbe limitata l’incidenza della magistratura nella elezione – e, dunque, scelta – dei magistrati, la cui componente verrebbe definita affidando la scelta degli altri magistrati da eleggere al potere legislativo e al Presidente della Repubblica.
Per il resto, ovvero per la componente “laica” (8) rimarrebbe – come già previsto – l’elezione da parte del Parlamento in seduta comune.
Un sistema, dunque, mutuato, in qualche modo, dal criterio previsto dalla Costituzione per la composizione della Corte costituzionale, che per la composizione dell’organo vede la partecipazione del Parlamento in seduta comune, del Presidente della Repubblica e della Magistratura.
Una proposta, questa, che – almeno per l’aspetto di mutuare il criterio da quello previsto per la Corte costituzionale – ricorda quella già stata avanzata dalla dottrina (Lippolis)- che mi sembra meritevole di considerazione – anche se secondo questa proposta Magistratura, il Parlamento in seduta comune e il Presidente della Repubblica eleggerebbero (o nominerebbero) ciascuno 1/3 dei componenti del CSM.
In ogni caso, entrambe le proposte – visto il tenore delle modifiche che propongono – non potrebbero essere introdotte con una normale legge ordinaria ma necessiterebbero di una revisione costituzionale, atteso che l’attuale art. 104 Costituzione stabilisce un modo di composizione diverso.
La proposta dei “magistrati di base” può ritenersi interessante e – potremmo dire – utile a limitare il ruolo delle correnti della magistratura, poiché, dato il numero dimezzato di membri togati da eleggere direttamente, le dinamiche correntizie sarebbero, se non escluse, molto ridimensionate.
Tale aspetto mi fa ritenere che, se si vuole però che nella scelta dei magistrati da eleggere al CSM le correnti siano non solo ridimensionate, ma neutralizzate (se non sterilizzate), l’unico strumento idoneo a tale obiettivo resta il “sorteggio” nella fase iniziale (tra i magistrati con almeno quindici anni di esercizio della funzione o che abbiano già il ruolo e il livello di magistrato di Cassazione), dal quale si comporrebbe la lista dei candidati da eleggere.
Altro aspetto che andrebbe rivisto riguarda l’elezione del Vicepresidente del CSM, ruolo ricoperto da un membro laico, poiché “politico”, e che dovrebbe essere eletto dai soli membri “laici” (e – sulla base della proposta discussa- anche dai “togati” eletti o nominati dal Parlamento e dal Presedente della Repubblica) o, addirittura, dallo stesso Parlamento in seduta comune al momento della elezione dei membri laici.
Ciò per evitare che i magistrati componenti del CSM entrino nelle dinamiche politiche e della politica che, anche in tal senso dovrebbero essere tenute distinte, che invece oggi , inevitabilmente, fanno parte del rapporto tra tutti i componenti (laici e togati).
Ultima considerazione.
Nella logica della revisione costituzionale per rivedere la composizione del CSM, sarebbe auspicabile che, come previsto per la Corte Costituzionale, il CSM divenisse un organo “permanente”, rinnovabile in tempi diversi e in base alle distinte componenti, elette o nominate, in modo da garantire la continuità e, nel contempo, lo svincolo dell’intero organo dalla legislatura contingente.
*Professore di Diritto Costituzionale all’Università di Palermo, già parlamentare nazionale
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