Cuore & Batticuore
Rubrica settimanale di posta storie di vita e vicende vissute
by Pinkie
The way we were. Il modo in cui eravamo. Per esprimere compiutamente la valenza dell’apparecchio telefonico per chi è stato adolescente negli anni ’70, conviene prendere in prestito il titolo di una delle opere più divulgative e divulgate del dottor Freud: “Totem e tabù”.
Certamente totem: il “nostro” telefono era superbamente nero, o grigio per i più anticonformisti, con un microfono imponente sostenuto da un’adeguata forcella rigida ed uno spettacolare lentissimo disco centrale per comporre i numeri telefonici altrui. 
Certamente totem: troneggiava su improbabili tavolini-consolle in “territori comuni” della casa, ingressi, corridoi, sale da pranzo. Ovunque insomma potesse essere totalmente ignorato il futuro concetto di privacy concretizzabile in porte chiuse.
Certamente totem e messaggero (“veloce, per favore…”) di rapide comunicazioni senza sospiri:
“…. ci vediamo alle….” “buongiorno signora, scusi posso parlare con….”.
In genere la risposta di una voce adulta maschile generava improvvise sospensioni di linea (riagganciamenti velocissimi) dettate da crisi di panico puro.
Certamente totem: per aspettare “quella” telefonata apparentemente innocente che copriva gli alibi delle uscite con qualche flirt poco esibito.
Privacy sempre nulla: “…chi è al telefono?….” voce altissima adulta dal fondo dell’ingresso-corridoio-sala da pranzo “Antonella..” – immediata, scattava la mano sul microfono per evitare che il Paolo della situazione ascoltasse la pietosa bugia . “..mi ha chiesto se posso andare da lei per aiutarla a finire la versione di greco….certo che torno entro ora di cena…”. E vai.
Certamente totem per teatrini improvvisati quando arrivavano telefonate sgradite e venivano costretti da indici velocissimi ondeggianti da destra a sinistra (a pagamento, s’intende, con tariffe tra le 50 e le 200 lire proporzionate alla perniciosità dell’interlocutore) fratelli e sorelle minori addestrati a rispondere “….no, non c’è, è andata dalla nonna”.
Anni di purgatorio assicurato immolati alla assoluta incapacità di dire “…non mi chiamare più” quando non esistevano messaggini e app automatizzati.
Certamente tabù: oltre che per il misconosciuto senso di privacy, per la incredibile brevità delle telefonate adolescenziali soprattutto in caso di chiamate in uscita.
Al secondo minuto di conversazione, la solita voce dal fondo dall’ingresso-corridoio-sala da pranzo arrivava puntuale “….devo mettere il lucchetto a questo telefono”
La minaccia epocale era il lucchetto che avrebbe bloccato il disco e quindi la possibilità di chiamare, le cui chiavi sarebbero state certamente custodite dall’esponente più autorevole e autoritario della famiglia.
Certamente tabù: solo decenni a venire avrebbero concesso la possibilità di un apparecchio telefonico per stanza, dedicato ai sospiri e ai “….quanto mi pensi?”
A noi bastavano due squilli, come i segnali di fumo.
“….alle 6, puntuale, ti faccio due squilli per dirti quanto ti penso, tu non rispondere, mi raccomando….”.
E nascevano passioni, finivano storie e amicizie, si costruivano romanzi e appuntamenti soltanto con due squilli.
Davvero poco social. Davvero poche possibilità di controlli ed invasività future.
L’idea di un qualcosa da portare in tasca per essere sempre connessi, da guardare ogni minuto, per contare like e spararsi selfie, all’epoca rigorosamente autoscatto, era impensabile e magari vissuta con una vertigine di pervasività.
Nei mercati delle pulci gli ormai inutili telefoni neri o grigi valgono tra i cinque e i dieci euro…..nessuno ha il coraggio di comprarli per raccontare loro storie fantastiche di totem e tabù.
L’accelerazione della digitalizzazione, e non soltanto nelle telecomunicazioni, è tale che si intravede la possibilità di eguagliare la velocità della luce e di comunicare col pensiero. Ma la domanda che Pinkie lascia in sospeso è un’altra: in quanti si rendono conto che sms, whatsApp o selfie non possono sostituire ciò che uno sguardo riesce a dire?