by Vincenzo Bajardi
Covid e Suez, con i conseguenti shock concentrici di consumi, prezzi e trasporti, hanno rilanciato l’esigenza dell’equilibrio climatico e della neutralità carbonica. Ovvero del bilanciamento tra le emissioni e l’assorbimento di carbonio.
Neutralità carbonica che come hanno stabilito l’Europa e le maggiori potenze mondiali si dovrà raggiungere entro il 2050. Il che significa imporre l’alt alle attività che producono C02 e dare spazio alle rinnovabili ed all’idrogeno che garantiranno l’elettrificazione delle attività industriali e dei trasporti nel mondo.
L’energia diventerà una attività limitata alle utilities, mentre i guadagni del futuro riguarderanno l’economia circolare. Intanto dopo lo blocco del canale di Suez, le quotazioni del greggio sono tornate ai livelli di un anno fa ed in Borsa i titoli delle società del settore sono ben distanti dall’aver recuperato il terreno perduto.
Il prezzo del petrolio influenza l’andamento delle Borse. Il greggio è il motore dell’economia globale. I due tipi più diffusi sono il Wti (o Cruide Oil, acronimo di West Texas Intermediate) estratto negli Usa, in particolare nel Texas, ed il Brent che arriva dal mare del Nord.
Prima della crisi finanziaria, nel 2008, il primo aveva raggiunto il massimo storico di 147,27 dollari al barile, il secondo era salito all’ICE di Londra a 147,50 al barile. Oggi il Brent, il mercato europeo è intorno ai 60 dollari. Il prezzo del Brent determina la quotazione del 60% del petrolio estratto nel mondo. Oltre alla suddivisione del petrolio in base alla qualità nei due mercati principali, di recente si tende a suddividere l’oro nero anche in relazione alla sua tipologia principale. Cioè la suddivisione nel petrolio tradizionale e lo Shale Oil.
Il business che ha fatto ricchi gli azionisti per più di dieci anni vede, ironia della sorte, l’orizzonte tingersi di nero. Entro il 2050 arriverà infatti lo stop alle attività che producono C02 e ci sarà invece disco verde per le rinnovabili e per l’idrogeno.
Le “big oil company” hanno dunque poco meno di 30 anni di tempo per riconvertirsi sposando la green economy altrimenti andranno in default. La strada da seguire, e che tutte le grandi società petrolifere hanno già intrapreso, è quella della transizione energetica verde. Total ha annunciato investimenti nell’eolico, Eni punta a produrre idrogeno blù a Ravenna, British Petroleum raggiungerà i 50 gigawatt installati di eloico entro il 2030, Shell ha firmato un contratto per la fornitura di energia rinnovabile per Amazon in Europa progettando un parco off-shore in Olanda. Secondo Ipfen, l’Istituto di ricerca francese riguardante il petrolio fondata nel 1944, gli investimenti nello scorso anno hanno sfiorato i 500 miliardi di dollari mentre quelli riguardanti l’estrazione e la produzione di petrolio e gas sono scesi a 378 miliardi.
La produzione petrolifera nel 2020 ha visto sul podio più alto gli Usa con 19,51 milioni di barili al giorno, quindi Arabia Saudita (11,81), Russia (11,49), Canada (5,50), Cina (4,89), Iraq (4,74), Emirati Arabi Uniti (4,01), Brasile (3,67), Iran (3,19 e Kuwait (2,94). La quotazione del petrolio viene stabilita dalla NYMEX (New York Mercantile Exchange) in base alle variazioni della domanda e offerta sul mercato. Sono stati investiti 378 miliardi in dollari perla produzione di idrocarburi.
Miliardi di investimenti che, nonostante la diversificazione della green economy fanno presagire una estinzione rallentata dello sfruttamento del petrolio come fonte energetica da parte delle big oil company, ben oltre il 2050.
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Giornalista automotive free lance, per decenni responsabile della pagina Motori del Corriere dello Sport